domenica 16 maggio 2010

Salone del Libro, Torino 2010: giorno terzo.

Picozzi e Avoledo, oltre il silenzio degli indizi

Sabato 15 Maggio 2010 23:17

Ridare voce a un corpo senza vita e riuscire a far parlare la scena di un delitto. È questa l’abilità di Massimo Picozzi e Tullio Avoledo. Se ne discute nel corso dell’incontro La memoria vista di lato. La memorie delle cose, coordinato da Fabrizio Vespa, dj e direttore artistico torinese.

I nomi di Picozzi e Avoledo sono spesso affiancati a crimini e cadaveri, ma con scopi e modi del tutto diversi. Picozzi è psichiatra e criminologo, cura libri e programmi incentrati su fatti di sangue e serial killer, ha lavorato per la trasmissione Linea d’ombra e veste ancora i panni di consulente e ospite fisso per Chi l’ha visto. Avoledo, invece, è scrittore di professione e autore di romanzi di successo, tra i quali Tre sono le cose misteriose (2005), grazie al quale ha vinto il Premio Grinzane Cavour 2006. Il suo ultimo lavoro, pubblicato nel novembre del 2009, si intitola L’anno dei dodici inverni (Einaudi), una storia d’amore e di viaggi nel tempo.

Come suggerisce Vespa, Avoledo ha studiato i lavori di Picozzi per scrivere le sue opere: “Da persona che ha orrore del sangue e del fango, cerco di interpretare e di trarre indizi da cose che non possono più parlare. Per fare questo, unisco le nozioni che mi fornisce la criminologia alla narrativa”.

Narrativa e regia trattano spesso crimini e omicidi. Picozzi, da esperto, ne restringe l’attendibilità ma non li disdegna: “Anzi, sono un estimatore di gialli, noir o serie televisive come Csi Miami, per la quale ho seguito la stesura dei copioni. Le serie hanno sempre consulenti esperti dietro le quinte. Eppure noto che in Csi lavorano su un solo caso per volta o che il grande scrittore John Grisham ha l’abitudine di fare accendere una torcia ai suoi personaggi quando arrivano sulla scena del delitto; la scientifica, invece, di solito si limita ad accendere la luce”.

Qui sta il bello della scrittura, secondo Avoledo: “Uno scrittore può fornire tante versioni di un delitto e può capitare che nessuna delle versioni si avvicini alla realtà. Ma l’obiettivo di un romanzo non è quello di arrivare al finale corretto, piuttosto raccontare come si arriva a quel finale. In Tre sono le cose misteriose, per esempio, ho voluto rendere la fatica della raccolta degli indizi, perché lì sta la risoluzione di un caso. Il bello sta proprio nelle potenzialità della scienza, cha allarga la conoscenza e consente di interpretare il silenzio dei fatti. Autopsie e scanner sui corpi: questo mi affascina della scienza”.

E questo – sottolinea Vespa – è il motivo per il quale libri e programmi incentrati su crimini e delitti raccolgono il favore del pubblico. “Se ne parla molto; eppure i delitti in Italia stanno diminuendo. Dai 1.800 casi degli ultimi anni si è passati a 600 casi. Csi ha lo stesso fascino di Sherlock Holmes o di Conan Doyle, però, rispetto a questi due esempi, sono aumentati i delitti senza movente classico (drive and shoot: guida e spara, è il nuovo crimine giocoso tristemente nelle classifiche dei crimini in America) e che questi casi sono sempre più efferati. Ma non è tutto semplice: sulla scena di un crimine c’è una marea di dati e, allo stesso tempo, povertà di informazioni. Si prova a cercare le relazioni nascoste attraverso ragionamenti matematici. La lettura del Dna non crea problemi, anche se è difficile leggere la presenza di una persona nella vita della vittima (le tante tracce lasciate sono legittime se frequentava la vittima); ben altro è l’analisi psicologica delle persone, che non è mai univoca. Al di là dei mezzi scientifici, la gente si chiede sempre la stessa cosa: Amanda Knox, Anna Maria Franzoni, Raffaele Sollecito, Alberto Stasi hanno la faccia da criminali? Io rispondo che Sollecito e Stasi sembrano semplicemente i fratelli brutti di Harry Potter”.

Al dubbio sulla fisiognomica di Picozzi risponde anche Avoledo: “Vogliamo le facce perché il delitto risolto con metodi scientifici non soddisfa. Abbiamo bisogno dell’atto espiatorio, della sofferenza, delle lacrime, anche se a versarle è l’assassino”.

E la fascinazione della morte, che ruolo gioca? A Vespa rispondono entrambi. Prima Picozzi: “La gente accorre sul luogo dell’incidente, ma possiamo pensare anche solo alle nonne che si riuniscono al cimitero per dare del poveretto al defunto e al loro interno sono felici di essere le sopravvissute. Escono così le nostre zone oscure, laddove pensiamo non siamo toccati dalla morte. Lo conferma il poco successo di serie televisive come quella sui delitti bianchi basata sugli errori delle amministrazioni. Pensare che potrebbe capitare anche a noi, forse, di morire per una banale appendicite non ci piace”. Chiude Avaledo: “Una volta per tradizione in America c’erano la funeral house. Oggi non più e l’immagine della morte vicina è assai rara, per questo piace”.

Arena Bookstock, ore 14.30, sabato 15 maggio 2010

Giovanna Boglietti

3 commenti:

  1. da studente di chimica forense,posso solo dire che queste serie sono pure troppe...intendo serie televisive!!!e la cosa che da una parte però mi preoccupa è che sono seguite...mentre serie sui delitti bianchi giustappunto non "interessano" ma sono molto più reali.
    oggi con questi telefilm si chiede l'impossibile nella vita reale e contestualizzare i tanti dati e le poche informazioni è necessario.ritengo che tutto questo sia una moda,una brutta moda in cui tante persone pensano di essere TUTTOLOGI alla CSI o alla RIS e hanno la presunzione di saperne più di tanti (addetti ai lavori inclusi,piccola critica a chi svolge queste professioni).
    i libri sull'argomento sono belli,ma ripeto:sembrano essere troppi!e troppo di moda!
    il mio è più uno sfogo!

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  2. come sempre, c'è chi si improvvisa una professione. capita soprattutto nel giornalismo. ti riporto un racconto fattomi da Mario Calabresi, direttore della Stampa. "Un giorno mi si avvicina un signore e mi dice: scusi, ma ho mandato al giornale il mio reportage fatto in Kenya e non l'avete pubblicate, vi pare modo?. Io allora lo guarda e gli chiedo che mestiere faccia. Il chirurgo, mi risponde. Allora replico: scusi, ma cosa direbbe se io mi mettessi un paio di guanti e un camice e le dicessi di essere pronto, che posso operare? Ci vuole rispetto per una professione, anche per quella del giornalista".
    Rende bene l'idea, vero?

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