martedì 28 dicembre 2010

Natalya Estemirova: l'affronto in tv pagato con la vita?

Natalya Estemirova era un’attivista russa per i diritti umani, attiva soprattutto in Cecenia e premiata in diversi paesi del mondo per il suo lavoro, fondamentale nel documentare decine di casi di abusi dei diritti umani in Cecenia. Estemirova è stata uccisa il 15 luglio del 2009: rapita alle otto e mezza del mattino in casa sua, a Grozny, infilata urlante in una macchina, uccisa a colpi di pistola in testa e al petto e poi abbandonata in un bosco, nel pomeriggio.

Sedici mesi dopo, in Russia si sta celebrando un processo riguardo Natalya Estemirova. Pochi giorni fa molti suoi amici sono entrati in un’aula di tribunale per assistere al dibattimento: un uomo dietro il banco degli imputati e i procuratori a chiedergli conto di operazioni speciali e omicidi mirati. Come racconta il New York Times, però, l’imputato non è il sospetto assassino di Estemirova, bensì un suo collega: Oleg P. Orlov, presidente di Memorial, una delle più forti e influenti organizzazioni russe per i diritti umani. Orlov è accusato di diffamazione, per via delle sue pubbliche ed esplicite accuse all’uomo che ritiene responsabile della morte di Natalya Estemirova: il presidente ceceno Ramzan Kadyrov, sostenuto dal governo centrale di Mosca. Rischia tre anni di detenzione.

La morte di Estemirova, invece, è stata oggetto di una singola e incompleta inchiesta, conclusasi senza nemmeno l’individuazione di uno o più imputati. Il suo caso è emblematico del funzionamento della giustizia russa, probabilmente ancora di più di quello di Mikhail Khodorkovsky di cui si discute molto in questi giorni. La denuncia mossa nei confronti di Orlov da parte del presidente ceceno è un ulteriore tassello di questa strategia, che prevede la sistematica repressione del dissenso con l’intimidazione e a volte anche la persecuzione giudiziaria. Non ci sono molte detenzioni sommarie, come avveniva ai tempi dell’Unione Sovietica, bensì una tattica più liquida: denunce per diffamazione, richieste di risarcimento danni, processi iniqui che non finiscono mai.

Il presidente Kadyrov ha detto ripetutamente di non avere nulla a che fare con la morte di Natalya Estemirova. Ha descritto però la sua organizzazione, Memorial, come infida e violenta. I suoi avvocati sostengono che Estemirova sia stata uccisa dagli stessi membri della sua organizzazione allo scopo di screditarlo. Ovviamente, nessuno dal Cremlino ha speso una parola per Orlov, che per adesso rimane a piene libero e continua a criticare Kadyrov per la sua brutale repressione delle insurrezioni islamiche in Cecenia. E per avere quantomeno demonizzato il lavoro di Estemirova, se non addirittura commissionato direttamente il suo assassinio.

Il presidente ceceno Kadyrov è un ex militante islamista che a un certo punto ha cambiato fronte del conflitto ed è diventato un fortissimo alleato del Cremlino. È stato nominato presidente da Putin nel 2004, quando il precedente presidente – suo padre, tra l’altro – era stato ucciso. Aveva appena trent’anni, faceva il boxeur, amava le armi e aveva uno zoo personale. Ha sostenuto più volte che l’unico obiettivo di Estemirova e Memorial è attrarre finanziamenti dall’estero e indebolire la Russia, e per questo sono pronti a mettere in giro falsità.

Nel 2008 aveva tentato di blandire Estemirova nominandola in organo governativo per i diritti umani, nella speranza che questo la portasse a essere meno critica nei confronti del governo. Le cose andarono diversamente: Estemirova andò in tv e denunciò la norma che obbliga le donne ad andare in giro col volto coperto, in ossequio a quanto stabilito dalla legge islamica. “Non mi piace che qualcuno mi imponga qualcosa, che sia come vivere o come vestire”. Kadyrov, sostenitore della norma, si infuriò e la licenziò. Lei si esiliò volando in Russia con sua figlia. Pochi mesi dopo tornò in Cecenia. Nel luglio del 2009, nei giorni in cui indagava sugli incendi appiccati dalle forze di sicurezza alle case dei militanti islamici, qualcuno la rapisce e la uccide.

“La gente mi chiede: chi è il colpevole di questo omicidio?”, disse Orlov a una conferenza stampa subito dopo il fatto. “Io conosco il nome di questa persona. Conosco il suo titolo. Il suo nome è Ramzan Kadyrov. Il suo titolo è presidente della Cecenia”. La risposta di Kadyrov arrivò diversi giorni dopo. “Perché Kadyrov dovrebbe uccidere una donna di cui non importa nulla a nessuna? Lei non ha mai avuto alcun onore né alcuna coscienza, mai”. Pochi giorni dopo, aggiunse: “Loro non sono miei avversari – sono nemici del popolo, nemici della legge, nemici dello stato”.

(Il Post)



lunedì 27 dicembre 2010

Iraq: uccide la figlia. Lei voleva fare la "kamikaze"

Eroe o assassino? La polizia irachena sta investigando i motivi che hanno spinto il piccolo commerciante di polli e pecore Najim al-Anbaky a strozzare e poi sgozzare sua figlia, la 19enne Shahlaa, circa tre settimane fa nella loro casa alla periferia del villaggio di Mandali. «Il caso è aperto. Se fosse confermata la versione del padre, secondo il quale avrebbe fermato la ragazza che era stata reclutata da al Qaeda per compiere un attentato suicida contro i pellegrini sciiti in arrivo dall'Iran, questi sarebbe immediatamente scarcerato e con il massimo del rispetto. Ma non è escluso si tratti dell'ennesimo delitto d'onore, da perseguitare con severità», sostengono gli agenti intervistati dai media locali.

LE DONNE IN IRAQ - Quella che emerge dal dramma di Shahlaa è in ogni caso un'altra prova delle complicate condizioni di vita per le donne nel profondo Iraq rurale. Mandali è un villaggetto della regione di Diala, un centinaio di chilometri a nord est da Bagdad, poco lontano dal confine con l'Iran. Luogo di scontro frontale tra sciiti e sunniti, dove i kamikaze di al Qaeda hanno causato migliaia di vittime tra le masse di pellegrini iraniani che annualmente transitano in bus da queste parti per raggiungere le città sante di Najaf e Karbala. Negli ultimi giorni la tensione è alle stelle. Sta infatti terminando il mese santo di Moharram, quando i pellegrinaggi sono più frequenti. Al Qaeda sta rialzando la testa.

I PRECEDENTI - Già nel passato ha utilizzato donne per gli attacchi sucidi. È più difficile controllarle ai posti di blocco. Mancano poliziotte. E loro possono nascondere le bombe sotto la «baja», il vestito lungo. Si calcola che dalla guerra del 2003 al Qaeda abbia reclutato oltre 180 donne «martiri» a Diala. Ci sono vedove, ragazzine inesperte, orfane, persino minorate. «Sapevamo che Shahlaa al-Anbaky era in contatto con al Qaeda. Per questo ci eravamo recati a perquisire la casa del padre», ammette il portavoce della polizia locale, maggiore Ghalib al-Karkhi. Come irrompono nell'abitazione però l'uomo li anticipa veloce. «Ho ucciso mia figlia. Stava per farsi saltare in aria. Il suo corpo è nascosto presso il nostro giardino». Se così fosse, avrebbe ben poco da temere dalla legge. Altre fonti nella polizia sottolineano però che già nel 1984 Najim aveva pugnalato a morte una sorella per difendere il buon nome della famiglia. Uno delle centinaia di delitti d'onore che insanguinano annualmente il mondo musulmano. La figlia potrebbe avere avuto una relazione senza essere sposata, forse con un militante di al Qaeda. Sin dalla crescita degli attentati nel 2005 è emerso che uno dei trucchi utilizzati dagli estremisti islamici è avere rapporti sessuali completi con le fidanzate, che così si mettono automaticamente in rotta con le famiglie e nelle mani dei loro reclutatori.

(Lorenzo Cremonesi, Corriere.it)

mercoledì 22 dicembre 2010

La mia avventura "parallela"

Si chiama Woman Journal.
Seguitemi anche su questo nuovo blog.
Fumerie d'ozio continuerà a trattare di donne in ambito internazionale.
Su Woman Journal parlerò della gentile metà
del nostro Paese.

sabato 18 dicembre 2010

Messico: il martirio di Marisela

Uccisa in strada. Chiedeva giustizia per la figlia sedicenne Ruby, gettata in una discarica nel 2008

WASHINGTON – Marisela Escobedo Ruiz chiedeva giustizia per la figlia brutalmente assassinata nel 2008. Ieri forse lo stesso killer l'ha freddata sparandole in testa. Un agguato non in un vicolo buio, ma davanti al palazzo del governo, nello stato messicano di Chihuahua. Le autorità locali dovrebbero pagare per questo delitto: sapevano che era stata minacciata e non ha fatto nulla per proteggerla. La battaglia solitaria di Marisela inizia nel 2008, quando la figlia sedicenne, Ruby, è uccisa e bruciata. Il cadavere è poi gettato in una discarica di Ciudad Juarez. Rispetto a centinaia di delitti insoluti, la polizia individua l'omicida: è il suo compagno, Sergio Bocanegra, un bandito vicino alla narco-gang dei Los Zetas. Lo arrestano un anno dopo e lo portano in giudizio. L'uomo confessa poi ritratta. A sorpresa viene assolto «per insufficienza di prove».

Il verdetto è scandaloso e provoca molte proteste. Si celebra un nuovo processo. Questa volta i giudici condannano il killer che però è ormai latitante. Marisela non si arrende. Si batte ovunque, lancia appelli, fa il possibile per ottenere che Bocanegra torni in prigione. E si improvvisa detective, riuscendo a localizzare il ricercato a Zacatecas. Quando cercano di catturarlo Bocanegra fugge sparando e trova poi protezione nei clan dei trafficanti. Nel clima di grande impunità, dove spesso polizia ed esercito messicani sono collusi con i mafiosi, il killer non ha paura di lanciare minacce contro la donna. Marisela avverte gli investigatori, ma sa bene che è inutile. È più facile che diano una mano ai tagliatori di teste. L’ultima carta è quella di un presidio solitario davanti al palazzo del governo a Chihuahua. Spera di smuovere le autorità, ma se che la vendetta dei nemici è vicina. In una intervista, il 7 dicembre, afferma: «Se vogliono farmi fuori che lo facciano qui davanti. Sarà una vergogna per il governo». È quello che accade. Il video di una telecamera di sorveglianza mostra una persona avvicinarsi a Marisela. Lei tenta di scappare, attraversa la strada, ma il sicario la insegue e la colpisce. È la fine.

La notizia dell'esecuzione suscita commozione, proteste, sdegno. E tanta rabbia. La polizia sospetta che l’esecutore possa essere sempre Sergio Bocanegra o un suo complice. Il governatore Duarte, finalmente, si sveglia. Annuncia provvedimenti contro i tre giudici che hanno assolto il killer: toglieremo loro l’immunità. Nulla che possa riparare quanto fatto alla famiglia Escobedo. Il martirio di Marisela – tanto per aggiungere sale sulle ferite – coincide con una maxi-evasione dal carcere di Nuevo Laredo, al confine con il Texas. Se ne sono andati – quasi certamente grazie alla complicità delle guardie – 140 detenuti, tutti legati ai narcos. Secondo la ricostruzione i prigionieri sono usciti tranquillamente dall’ingresso principale senza che nessuno tentasse di fermarli. Sulla cifra esatta dei fuggiaschi però potrebbero esserci delle sorprese. I detenuti rimasti hanno impedito alla polizia di fare «la conta» nel braccio 2. E dunque non si esclude che gli evasi siano molti di più. Questo per dire che se anche Sergio Bocanegra finisse di nuovo in cella non vi sarebbe la garanzia di una lunga permanenza. Questo è il Messico.

Guido Olimpio (Il Corriere.it)