martedì 28 dicembre 2010

Natalya Estemirova: l'affronto in tv pagato con la vita?

Natalya Estemirova era un’attivista russa per i diritti umani, attiva soprattutto in Cecenia e premiata in diversi paesi del mondo per il suo lavoro, fondamentale nel documentare decine di casi di abusi dei diritti umani in Cecenia. Estemirova è stata uccisa il 15 luglio del 2009: rapita alle otto e mezza del mattino in casa sua, a Grozny, infilata urlante in una macchina, uccisa a colpi di pistola in testa e al petto e poi abbandonata in un bosco, nel pomeriggio.

Sedici mesi dopo, in Russia si sta celebrando un processo riguardo Natalya Estemirova. Pochi giorni fa molti suoi amici sono entrati in un’aula di tribunale per assistere al dibattimento: un uomo dietro il banco degli imputati e i procuratori a chiedergli conto di operazioni speciali e omicidi mirati. Come racconta il New York Times, però, l’imputato non è il sospetto assassino di Estemirova, bensì un suo collega: Oleg P. Orlov, presidente di Memorial, una delle più forti e influenti organizzazioni russe per i diritti umani. Orlov è accusato di diffamazione, per via delle sue pubbliche ed esplicite accuse all’uomo che ritiene responsabile della morte di Natalya Estemirova: il presidente ceceno Ramzan Kadyrov, sostenuto dal governo centrale di Mosca. Rischia tre anni di detenzione.

La morte di Estemirova, invece, è stata oggetto di una singola e incompleta inchiesta, conclusasi senza nemmeno l’individuazione di uno o più imputati. Il suo caso è emblematico del funzionamento della giustizia russa, probabilmente ancora di più di quello di Mikhail Khodorkovsky di cui si discute molto in questi giorni. La denuncia mossa nei confronti di Orlov da parte del presidente ceceno è un ulteriore tassello di questa strategia, che prevede la sistematica repressione del dissenso con l’intimidazione e a volte anche la persecuzione giudiziaria. Non ci sono molte detenzioni sommarie, come avveniva ai tempi dell’Unione Sovietica, bensì una tattica più liquida: denunce per diffamazione, richieste di risarcimento danni, processi iniqui che non finiscono mai.

Il presidente Kadyrov ha detto ripetutamente di non avere nulla a che fare con la morte di Natalya Estemirova. Ha descritto però la sua organizzazione, Memorial, come infida e violenta. I suoi avvocati sostengono che Estemirova sia stata uccisa dagli stessi membri della sua organizzazione allo scopo di screditarlo. Ovviamente, nessuno dal Cremlino ha speso una parola per Orlov, che per adesso rimane a piene libero e continua a criticare Kadyrov per la sua brutale repressione delle insurrezioni islamiche in Cecenia. E per avere quantomeno demonizzato il lavoro di Estemirova, se non addirittura commissionato direttamente il suo assassinio.

Il presidente ceceno Kadyrov è un ex militante islamista che a un certo punto ha cambiato fronte del conflitto ed è diventato un fortissimo alleato del Cremlino. È stato nominato presidente da Putin nel 2004, quando il precedente presidente – suo padre, tra l’altro – era stato ucciso. Aveva appena trent’anni, faceva il boxeur, amava le armi e aveva uno zoo personale. Ha sostenuto più volte che l’unico obiettivo di Estemirova e Memorial è attrarre finanziamenti dall’estero e indebolire la Russia, e per questo sono pronti a mettere in giro falsità.

Nel 2008 aveva tentato di blandire Estemirova nominandola in organo governativo per i diritti umani, nella speranza che questo la portasse a essere meno critica nei confronti del governo. Le cose andarono diversamente: Estemirova andò in tv e denunciò la norma che obbliga le donne ad andare in giro col volto coperto, in ossequio a quanto stabilito dalla legge islamica. “Non mi piace che qualcuno mi imponga qualcosa, che sia come vivere o come vestire”. Kadyrov, sostenitore della norma, si infuriò e la licenziò. Lei si esiliò volando in Russia con sua figlia. Pochi mesi dopo tornò in Cecenia. Nel luglio del 2009, nei giorni in cui indagava sugli incendi appiccati dalle forze di sicurezza alle case dei militanti islamici, qualcuno la rapisce e la uccide.

“La gente mi chiede: chi è il colpevole di questo omicidio?”, disse Orlov a una conferenza stampa subito dopo il fatto. “Io conosco il nome di questa persona. Conosco il suo titolo. Il suo nome è Ramzan Kadyrov. Il suo titolo è presidente della Cecenia”. La risposta di Kadyrov arrivò diversi giorni dopo. “Perché Kadyrov dovrebbe uccidere una donna di cui non importa nulla a nessuna? Lei non ha mai avuto alcun onore né alcuna coscienza, mai”. Pochi giorni dopo, aggiunse: “Loro non sono miei avversari – sono nemici del popolo, nemici della legge, nemici dello stato”.

(Il Post)



lunedì 27 dicembre 2010

Iraq: uccide la figlia. Lei voleva fare la "kamikaze"

Eroe o assassino? La polizia irachena sta investigando i motivi che hanno spinto il piccolo commerciante di polli e pecore Najim al-Anbaky a strozzare e poi sgozzare sua figlia, la 19enne Shahlaa, circa tre settimane fa nella loro casa alla periferia del villaggio di Mandali. «Il caso è aperto. Se fosse confermata la versione del padre, secondo il quale avrebbe fermato la ragazza che era stata reclutata da al Qaeda per compiere un attentato suicida contro i pellegrini sciiti in arrivo dall'Iran, questi sarebbe immediatamente scarcerato e con il massimo del rispetto. Ma non è escluso si tratti dell'ennesimo delitto d'onore, da perseguitare con severità», sostengono gli agenti intervistati dai media locali.

LE DONNE IN IRAQ - Quella che emerge dal dramma di Shahlaa è in ogni caso un'altra prova delle complicate condizioni di vita per le donne nel profondo Iraq rurale. Mandali è un villaggetto della regione di Diala, un centinaio di chilometri a nord est da Bagdad, poco lontano dal confine con l'Iran. Luogo di scontro frontale tra sciiti e sunniti, dove i kamikaze di al Qaeda hanno causato migliaia di vittime tra le masse di pellegrini iraniani che annualmente transitano in bus da queste parti per raggiungere le città sante di Najaf e Karbala. Negli ultimi giorni la tensione è alle stelle. Sta infatti terminando il mese santo di Moharram, quando i pellegrinaggi sono più frequenti. Al Qaeda sta rialzando la testa.

I PRECEDENTI - Già nel passato ha utilizzato donne per gli attacchi sucidi. È più difficile controllarle ai posti di blocco. Mancano poliziotte. E loro possono nascondere le bombe sotto la «baja», il vestito lungo. Si calcola che dalla guerra del 2003 al Qaeda abbia reclutato oltre 180 donne «martiri» a Diala. Ci sono vedove, ragazzine inesperte, orfane, persino minorate. «Sapevamo che Shahlaa al-Anbaky era in contatto con al Qaeda. Per questo ci eravamo recati a perquisire la casa del padre», ammette il portavoce della polizia locale, maggiore Ghalib al-Karkhi. Come irrompono nell'abitazione però l'uomo li anticipa veloce. «Ho ucciso mia figlia. Stava per farsi saltare in aria. Il suo corpo è nascosto presso il nostro giardino». Se così fosse, avrebbe ben poco da temere dalla legge. Altre fonti nella polizia sottolineano però che già nel 1984 Najim aveva pugnalato a morte una sorella per difendere il buon nome della famiglia. Uno delle centinaia di delitti d'onore che insanguinano annualmente il mondo musulmano. La figlia potrebbe avere avuto una relazione senza essere sposata, forse con un militante di al Qaeda. Sin dalla crescita degli attentati nel 2005 è emerso che uno dei trucchi utilizzati dagli estremisti islamici è avere rapporti sessuali completi con le fidanzate, che così si mettono automaticamente in rotta con le famiglie e nelle mani dei loro reclutatori.

(Lorenzo Cremonesi, Corriere.it)

mercoledì 22 dicembre 2010

La mia avventura "parallela"

Si chiama Woman Journal.
Seguitemi anche su questo nuovo blog.
Fumerie d'ozio continuerà a trattare di donne in ambito internazionale.
Su Woman Journal parlerò della gentile metà
del nostro Paese.

sabato 18 dicembre 2010

Messico: il martirio di Marisela

Uccisa in strada. Chiedeva giustizia per la figlia sedicenne Ruby, gettata in una discarica nel 2008

WASHINGTON – Marisela Escobedo Ruiz chiedeva giustizia per la figlia brutalmente assassinata nel 2008. Ieri forse lo stesso killer l'ha freddata sparandole in testa. Un agguato non in un vicolo buio, ma davanti al palazzo del governo, nello stato messicano di Chihuahua. Le autorità locali dovrebbero pagare per questo delitto: sapevano che era stata minacciata e non ha fatto nulla per proteggerla. La battaglia solitaria di Marisela inizia nel 2008, quando la figlia sedicenne, Ruby, è uccisa e bruciata. Il cadavere è poi gettato in una discarica di Ciudad Juarez. Rispetto a centinaia di delitti insoluti, la polizia individua l'omicida: è il suo compagno, Sergio Bocanegra, un bandito vicino alla narco-gang dei Los Zetas. Lo arrestano un anno dopo e lo portano in giudizio. L'uomo confessa poi ritratta. A sorpresa viene assolto «per insufficienza di prove».

Il verdetto è scandaloso e provoca molte proteste. Si celebra un nuovo processo. Questa volta i giudici condannano il killer che però è ormai latitante. Marisela non si arrende. Si batte ovunque, lancia appelli, fa il possibile per ottenere che Bocanegra torni in prigione. E si improvvisa detective, riuscendo a localizzare il ricercato a Zacatecas. Quando cercano di catturarlo Bocanegra fugge sparando e trova poi protezione nei clan dei trafficanti. Nel clima di grande impunità, dove spesso polizia ed esercito messicani sono collusi con i mafiosi, il killer non ha paura di lanciare minacce contro la donna. Marisela avverte gli investigatori, ma sa bene che è inutile. È più facile che diano una mano ai tagliatori di teste. L’ultima carta è quella di un presidio solitario davanti al palazzo del governo a Chihuahua. Spera di smuovere le autorità, ma se che la vendetta dei nemici è vicina. In una intervista, il 7 dicembre, afferma: «Se vogliono farmi fuori che lo facciano qui davanti. Sarà una vergogna per il governo». È quello che accade. Il video di una telecamera di sorveglianza mostra una persona avvicinarsi a Marisela. Lei tenta di scappare, attraversa la strada, ma il sicario la insegue e la colpisce. È la fine.

La notizia dell'esecuzione suscita commozione, proteste, sdegno. E tanta rabbia. La polizia sospetta che l’esecutore possa essere sempre Sergio Bocanegra o un suo complice. Il governatore Duarte, finalmente, si sveglia. Annuncia provvedimenti contro i tre giudici che hanno assolto il killer: toglieremo loro l’immunità. Nulla che possa riparare quanto fatto alla famiglia Escobedo. Il martirio di Marisela – tanto per aggiungere sale sulle ferite – coincide con una maxi-evasione dal carcere di Nuevo Laredo, al confine con il Texas. Se ne sono andati – quasi certamente grazie alla complicità delle guardie – 140 detenuti, tutti legati ai narcos. Secondo la ricostruzione i prigionieri sono usciti tranquillamente dall’ingresso principale senza che nessuno tentasse di fermarli. Sulla cifra esatta dei fuggiaschi però potrebbero esserci delle sorprese. I detenuti rimasti hanno impedito alla polizia di fare «la conta» nel braccio 2. E dunque non si esclude che gli evasi siano molti di più. Questo per dire che se anche Sergio Bocanegra finisse di nuovo in cella non vi sarebbe la garanzia di una lunga permanenza. Questo è il Messico.

Guido Olimpio (Il Corriere.it)

mercoledì 24 novembre 2010

Biellywood, o quasi!


“Benvenuti nel Nord-Ovest”. Sarà forse il motto che alla presentazione della commedia “made in Biella” al Torino Film Festival (produzione sostenuta da Film Investimenti Piemonte), che si aprirà venerdì.

Di certo il motto l’ha coniato il sindaco, Dino Gentile, ispirato dal fresco successo ai botteghini del film “Benvenuti al Sud”, interpretato da Claudio Bisio.

Un motto e una raccomandazione. Così, sembra proprio che quei biellesi che, in questi giorni di riprese ingombranti, sbuffano e si lamentano debbano mettersi il cuore in pace: Biella potrebbe diventare la Castellabate del Piemonte e, proprio come sta accadendo al paesino del Salernitano dove il film di Bisio è stato ambientato, imporsi come ambita meta turistica.

A differenza di un consigliere comunale di Ivrea che ha recitato come comparsa, il primo cittadino di Biella ha declinato l’invito di Simona Izzo, ma il Comune all’evento ha partecipato offrendo 5mila euro. Una piccola parte, alla quale si è aggiunto il contributo di enti e imprenditori; così si è arrivati a 40mila.

Quanto alla ricaduta? C’è una cifra, che sorprende: “Per il mese di permanenza della troupe di Tognazzi (alloggi, pasti e spese di vario genere di una settantina di persone), i ricavi sono stimati sul milione di euro. Senza contare la scia che il film lascerà dopo l’uscita, dall’ 8 aprile”, precisa l’assessore Andrea Gibello. Aggiungendo anche il noleggio, saranno 15 milioni gli spettatori che vedranno Biella sullo schermo.


Continua sul sito de Il Biellese...


(Giovanna Boglietti, Il Biellese, 23 novembre 2010)


sabato 13 novembre 2010

Obama - Palin: reality show.

La presidenza a colpi di reality. A metà mandato, Barack Obama e la sfidante favorita alla corsa alla presidenza, Sarah Palin, anticipano la campagna elettorale e fanno di più: si mostrano nella loro vita quotidiana. Democratici contro repubblicani sotto l’occhio indiscreto del Big Brother, ma a modo loro.

Barack Obama sceglie di documentare i video dei retroscena alla Casa Bianca attraverso una pubblicazione settimanale su internet. La serie è intitolata West wing week”, in omaggio a “West wing” uno dei più celebri sceneggiati televisivi: l’ala destra della Casa Bianca, uno show tra il politico e il personale, ispirato al presidente Clinton, predecessore di Obama. A dispetto della recente virata repubblicana alle urne, “West wing week” sta riscuotendo successo di pubblico e di media. La Abc e la Msnbc, ad esempio, hanno ripreso il filmato in cui Obama telefona a Gail O’ Brien, una donna a cui era stato diagnosticato un tumore molto grave.

L’approccio al reality è quello in salsa agrodolce al quale la famiglia Obama ci ha abituati: le figlie che giocano nella sala Ovale, sulla scia dei Kennedy; la White House aperta ai bambini a Natale per il rito della consegna dei regali, la famiglia che nuota nel mare inquinato dalla Bp; Michelle che zappa l’orto nel giardino presidenziale e che, in questi giorni, ha preso ad affettare bistecche per i militari americani. Obama ci riprova con l'anticonformismo che ha fatto della sua vita quotidiana e privata il collante al suo elettorato; più che l’attuazione del programma di partito, costato non poche critiche. Uno dei video.



L’autore dei video è Arun Chandhary, trentacinquenne giornalista, regista, fotografo e operatore cinematografico. Chandhary ha dichiarato al “New York Times” di “voler fare la storia”, perché, secondo lui, “West wing week” è un documentario a cui gli storici attingeranno ampiamente in futuro per spiegare la Presidenza Obama.

Se gli Obama rappresentano i parvenu e l’americano medio-alto, con un certo stile, Sarah Palin punta invece all’americano medio puro, quello che nell’immaginario collettivo dorme con il fucile sotto al cuscino, beve e mangia a volontà, assapora la bellezza un po’ ruvida di una Mother Nature incontaminata. Sembra un po’ stringente il presupposto da cui parte il reality "Sarah Palin's Alaska", serie targata TLC, di Discovery Network.



Da domani sera gli americani si godranno lo spettacolo, se è vero – come riporta con perplessità The Huffington Post - che per i produttori "there's something for everyone here. We do shoot all around the country. Our topics and people tend to represent a lot of daily American lives -- a little less of the edgy, cooler (material)". L’Alaska è in ogni americano, ma davvero? Già spuntano versioni satiriche del programma, come questa. In ogni caso, starà agli americani appiccicarsi addosso l’etichetta tra il goliardico e lo spartano.



Giovanna Boglietti

mercoledì 10 novembre 2010

Germania: si litiga sul femminismo. Tra donne.

Le femministe tedesche insorgono: sarebbe naturale individuare l’oggetto della loro indignazione nell’ennesima discriminazione di carattere sessuale, dove il potere patriarcale ha avuto la meglio su competenze e merito, e invece a suscitare le ire delle agguerrite donne è un altra donna, la ministra della famiglia Kristina Schröder, che in una recente intervista al Der Spiegel ha duramente criticato l’ultimo libro della storica femminista Alice Schwarzer, dal titolo “La piccola differenza e le sue grandi conseguenze”.

La Schröder ha contestato alla Schwarzer che il rifiuto della relazione tra uomo e donna non rappresenta la soluzione all’ineguaglianza fra i sessi e soprattutto che sia sbagliato sostenere che “il rapporto eterosessuale sarebbe difficilmente possibile senza soggiogare la donna”. Non contenta, o forse non consapevole delle reazioni che avrebbe suscitato, la Schröder ha continuato: “E’ assurdo parlare di soggiogare quando si tratta di qualcosa di essenziale per la sopravvivenza dell’umanità – e ancora – il femminismo ha almeno in parte sottovalutato che la coppia e i figli portano felicità”.

Ma potevano bastare queste affermazioni per suscitare le ire funeste femministe? Probabilmente, dalla saggezza dei suoi 33 anni con cui si è aggiudicata il titolo di ministra più giovane, la politica cristiano-democratica voluta da Angela Merkel al dicastero della famiglia pensava di no ed è allora che ha sganciato la bomba mediatica, sostenendo che spesso è colpa delle donne se non guadagnano quanto gli uomini: “Molte donne preferiscono studiare la filologia tedesca, mentre gli uomini studiano ingegneria elettrica: questo ha conseguenze sui salari, non possiamo vietare alle imprese di pagare di più un ingegnere elettrico di una filologa”. Affermazione che voleva essere solo una premessa per introdurre l’intento del suo ministero di aiutare i ragazzi (maschi) finora trascurati e che ottengono risultati scolastici mediamente peggiori rispetto alle ragazze (femmine).

Le repliche ovviamente non si sono fatte attendere, tanto che in una lettera allo Spiegel la Schwarzer si è dichiarata oltraggiata e indignata dalle parole della ministra e che capisce come mai, dopo un anno di mandato, la Schröder non abbia fatto nulla per le famiglie: “la ministra è un caso senza speranza, semplicemente non qualificata. Qualsiasi sia il motivo che la cancelliera può aver avuto per nominare lei, questo non può essere stato la competenza e l’empatia verso le donne”.

Non solo la Schwarzer accusa la ministra di non ave letto nulla di femminismo e di non aver capito i cambiamenti del movimento, che dal 1975 ad oggi è stato soggetto di una costante evoluzione, ma anche di aver semplicisticamente applicato dei “cliché a buon mercato per il movimento sociale di maggiore impatto del Ventesimo Secolo”. L’irata femminista ha aggiunto che una ministra che “riproduce nient’altro che stereotipi” non può funzionare e paragonandola a coloro che “semplicemente non sono in grado di passare per il femminismo, come le ex dittature militari dell’Europa dell’Est o i Paesi musulmani”.

Il panorama politico tedesco non è stato da meno: la leader verde Renate Künast ha definito le parole della Schröder come “crude e antiquate”, mentre Katja Kipping, leader del partito di sinistra Linke, ha affermato che la giovane ministra non sa nulla di femminismo, poiché il problema non è “odiare l’uomo, ma combattere le strutture patriarcali”.

In un paese come la Germania che vanta una cancelliera donna, la Merkel, e che ha un alto numero di quote rosa nell’attuale governo, è impensabile che il femminismo rappresenti un movimento sconosciuto e combattuto come la ministra della famiglia ha fatto, dimenticando forse le difficoltà che negli altri paesi europei, e non solo, affrontano le donne per ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Non c’è da stupirsi se poi in Italia, stato ancora fortemente patriarcale, i sondaggi Istat confermino le donne come ‘angeli del focolare. Stupirsi purtroppo no, ma forse indignarsi si.



(da Blitzquotidiano)

sabato 30 ottobre 2010

Tanti "amano le donne"

"Viene il sospetto che la principale ragione per salire su un palco con un megafono in mano sia il narcisismo. La classe politica non viene da Marte, è il ritratto dell’Italia, i politici siamo noi".


(Paolo Villaggio, Storia della libertà di pensiero)

Uomini indignati dalla frase che rimbalza su giornali, televisioni e internet. Post accesi sui social network. Ma ci avete mai pensato? Il 90 per cento gli uomini nella sua vita quotidiana si giustifica così. Dicendo a occhi sgranati: "Cosa posso farci se io amo le donne? Tutte!": le donne non si "amano", cari italiani, si rispettano. Lasciate l'Amore alle donne.

giovedì 14 ottobre 2010

Saudiwoman: oltre il velo. Quello del silenzio.

Saudiwoman’s Weblog. Dietro a questo diario interattivo scrive Eman, una donna saudita che affida alla rete racconti e descrizioni sulla sua vita di moglie e madre in un Paese che non riconosce la dignità di essere femmina.

Eman, dicono in molti, è una delle migliaia di donne che hanno invaso internet per denunciare al mondo le restrizioni imposte dallo Stato più conservatore al momento esistente, l’Arabia Saudita. Il blog registra 500 visitatori al giorno: Eman ha studiato negli Stati Uniti e una volta tornata a casa ha voluto affrontare gli “stereotipi” che vincolano le donne arabe.

Scriveva di lei, pochi mesi fa, Francesca Caferri per Repubblica.it (leggi l’articolo): "Apartheid di genere", "stato di schiavitù", lo definiscono in privato molte donne saudite: un muro che per decenni ha dominato incontrastato ma sul quale Internet e delle nuove tecnologie stanno aprendo crepe importanti.

Donne che possono uscire se accompagnate, donne alle quali non è permesso guidare, donne che indossano i veli integrali perché così preferiscono i loro mariti, ma donne che scioperano per lo shopping di lingerie contro i commessi uomini e che – in poche forse – cercano di frenare il fenomeno delle spose bambine. Lo si legge proprio nell’ultimo post del blog di Eman, datato 9 ottobre 2010: I’ve been wanting to write this post all day but I just couldn’t get myself to do it”.

All’inizio anche per Eman è stata la resa. Non riusciva a scrivere delle spose bambine, e per farlo doveva preparare se stessa, passare dentro al dispiacere, andare oltre il suo ruolo di spettatrice impotente. Lei, 34 anni, madre di 3 figli.

La storia che Eman racconta è quella di una bambina di 13 anni di Najran “venduta” – sottolinea – ad un uomo di 50. Tutta la famiglia era contraria, ma niente ha smosso il padre nella sua decisione: una figlia per una macchina nuova. Questo il segreto dello scambio. La storia “finalmente” viene riportata dalla stampa saudita: il matrimonio s’è consumato soltanto dopo due mesi e mezzo e per intervento della madre dello sposo che “vedeva la moglie così fragile, che non sapeva come comportarsi con lei” e che si è preparato due settimane prima per trovare il coraggio di fare sesso.

Scrive sul suo blog Eman: Since reforms have started the only thing that has been implemented is that women can book into a hotel without a male guardian’s permission. A small step but now the time is ripe for criminalizing wedlock pedophilia. And don’t give me that line that the prophet PBUH married Aisha when she was 9 years old. That’s disputed and historians have shown that she was actually 19”.

I tempi sono maturi per includere fra I crimini la pedofilia. E non si dica che Maometto sposò Aisha quando lei aveva 9 anni, perché – precisa Eman – è stato dimostrato che ne aveva 19.

Conclude la blogger: Women are still considered legally minors no matter how old they are, banned from driving, and at the mercy of their guardians when it comes to education, work, marriage, divorce and child custody. We need laws to instate our rights as human beings and protect our daughters from these horrors”.

Le donne sono considerate legalmente minori, non importa quanti anni abbiano, bandite dalla guida, in preda ai tutori quanto a educazione, lavoro, matrimonio, divorzio e custodia dei figli. C'è bisogno di leggi per istituire i nostri diritti di esseri umani e proteggere le figlie da questi orrori.



Giovanna Boglietti

martedì 5 ottobre 2010

Izzat: donne e onore

Bouchra è morta per non indossare il velo, Darin Omar perché lavorava in uno «scandaloso» call-center, Amal voleva andare dal parrucchiere e l’ha pagato con la vita. Dietro al nome tristemente noto ai media della pakistana Hina Salem, decapitata dal padre perché disonorata dal fidanzato italiano, c’è una lunga lista di giovani donne sconosciute che assaggiano sulla propria pelle lo scollamento tra la cultura d’origine e quella d’adozione.
«Le famiglie immigrate sperimentano in Italia un’identità dislocata, in patria godono del prestigio di chi lavora all’estero mentre qui non contano quasi niente», osserva Maurizio Ambrosini, docente di sociologia dell’immigrazione all’università di Milano. Capita che la rispettabilità sociale valga bene una figlia: «Le buone alleanze matrimoniali rafforzano il prestigio familiare ed è ovvio che questo cozzi con la realtà delle seconde generazioni cresciute lontanissime dagli antichi usi. Qualche volta, per fortuna assai meno di quanto si pensi, un normale conflitto tra padri e figli sfocia in episodi come quello di Novi».
I dati sul nostro paese parlano di duemila spose bambine l’anno ma l’iceberg sta emergendo, conferma il demografo Alessandro Rasina: «Vedremo un aumento esponenziale della tensione, seppur non matematicamente destinata a esiti tragici. Come se non bastassero le seconde generazioni che hanno oggi 16, 17 anni, gli immigrati fanno molti figli e in breve tempo i giovani saranno assai più del 20% attuale della popolazione straniera».
Il matrimonio è inevitabilmente la linea del fronte, rito di passaggio per il mondo adulto da cui dipende l’identità etnica assai più di quella individuale. Soprattutto per alcune culture.
«In Pakistan tutta la società gira intorno all’izzat, che in urdu vuol dire onore, e la donna ne è lo scrigno», spiega il giornalista e mediatore culturale pakistano Ahmed Ejaz. Tradotto nella vita quotidiana singifica unioni forzate e padri-padroni. Ma non è una prerogativa delle comunità musulmane: «Il problema riguarda tutto il subcontinente indiano, Pakistan, India, Bangladesh. Vale a dire oltre 300 mila persone che quando aprono la porta di casa entrano in Asia e quando se la chiudono alle spalle sono qui in Italia».
Ci sono le vittime e i salvati. Ma quanti sono i sommersi? Secondo il ventisettenne marocchino Khalid Chaouki, responsabile della seconda generazione dei giovani del Pd e direttore del sito Minareti.it, sono parecchi: «Tra noi si discute molto di matrimoni forzati, Facebook aiuta e garantisce la privacy. L’Italia si prepari a sentirne parlare sempre più spesso ma non necessariamente quando è troppo tardi: le giovani donne immigrate sono battagliere».

sabato 2 ottobre 2010

Poligamia? Meglio poliginia.

“Comment nous nous sommes fait piéger”. Il settimanale di attualità francese Le Point ammette la leggerezza con riserva: tre dei suoi giornalisti sono sì caduti in trappola, ma con professionalità. In Francia, la notizia fa sorridere e pensare, tanto da essere ripresa da molti altri giornali, uno per tutti Libération. Le Point ha intervistato la moglie di un poligamo, promettendo ai lettori in copertina “tutto ciò che non si osa dire”. Ma ha osato troppo: la donna non esiste, la famiglia in questione neppure.
Se i giornalisti avessero incontrato la signora Bintou avrebbero scoperto che in realtà altro non era che Abdel, un ragazzo di 23 anni membro del collettivo AC le feu, nato dopo le rivolte del 2005: “Stanco di tutti i clichés sulle banlieue veicolati dai media” – scrive Libération – “Il ragazzo ne ha voluto testare l’affidabilità e i metodi di lavoro”. A farne le spese il team di professionisti, che avevano chiesto a Bintou un’intervista di persona, ma dopo vari rifiuti si sono lasciati convincere e hanno fatto tutto per telefono. Nessuna verifica, convinti della buona fede di una intermediaria di fama, Sonia Imloul, membro del Consiglio economico e sociale per l’Institut Montaigne che appena un anno fa ha presentato un rapporto sulla poligamia in Francia.
Al di là della dimostrazione “politicamente mirata” (il bersaglio è il giornalista Jean-Michel Décugis, autore del libro “Paroles de banlieues”?), è proprio l’idea di clichés diffusi Oltralpe su poligamia e banlieue (Corriere della Sera, 2005) o velo e integrazione ciò che emerge ancora una volta nella Francia di Sarkozy, sempre tesa.
Quali clichés? La signora Bintou diceva di non poter lasciare il marito poligamo, di non avere un lavoro, una casa, una famiglia vera. E che il figlio immaginario Samba pativa la situazione, andava male a scuola, le portava dei soldi frutto sicuramente di un furto. Del padre non c’era niente da aggiungere: “Le père, encore une fois, n’était pas là, se désole l’article” (Libération).
La Francia da sempre lotta contro la poligamia, come ha fatto con altrettanta insistenza contro il velo. Dal rapporto di Sonia Imloul emerge che sono poche le notizie sulla poligamia. Il ricongiungimento delle mogli dei poligami fu autorizzato dal Consiglio di stato francese nel 1980 in nome del multiculturalismo per poi essere definitivamente vietato con legge solo nel 1993. Un rapporto della commissione dei diritti dell'uomo stima il numero di famiglie poligame tra 16.000 e 20.000 per un totale di 200.000 persone. Non esistono però statistiche complete e precise sul numero di famiglie poligame in Francia, sulle loro condizioni economiche, pur essendo indispensabili per la gestione dei sussidi alle famiglie (basta pensare a un padre con 40 figli da mandare a scuola e che chiede una sola casa con 15 camere da letto).
E nel nostro Paese? Si legge che su oltre un milione di musulmani residenti in Italia circa 15 mila sono poligami. In Francia e in Germania le cifre sono superiori, arrivando a toccare i 100 mila casi nella terra di Voltaire e i 60 mila in quella di Goethe. In particolare quella francese, coi suoi 5 milioni, è la comunità islamica più vasta d'Europa.
Ad oggi la poligamia in Italia è punita dall'articolo 556 del Codice penale. E anche in alcuni Paesi musulmani la poliginia è oramai proibita. segnatamente nelle laiche Turchia e Tunisia e, più recentemente, anche in Marocco, con l'introduzione del nuovo Codice familiare, la "Moudawana". E c’è di più: è possibile che in Italia si possa diventare poligami più facilmente che in Marocco o in Turchia. Ci sono tre modi: o si sposa in patria la prima moglie e si sposa la seconda all'estero, nella propria ambasciata, senza denunciare il primo matrimonio, o ci si fa raggiungere dalla prima moglie con il ricongiungimento familiare, oppure si sposa la seconda moglie in moschea con il "matrimonio a tempo" Orfi non riconosciuto dallo Stato.
Anche se un caso particolare c’è stato: nel 2003 il tribunale di Bologna ha assolto un poligamo islamico ritenendo che la legge punisca quel reato (bigamia in questo caso) solo se compiuto sul territorio nazionale. Ecco spiegata la facilità di aggirare la questione in Occidente.
In Francia il dibattito, dopo il colpo all’inchiesta di Le Point, promette scintille. Tanto più che nel giugno scorso il capogruppo dell’Unione di centro al Senato, Nicolas About, ha presentato una proposta di legge per istituire un “reato di poligamia, di istigazione alla poligamia e, con circostanza aggravante, di frode alla previdenza sociale” (Il Manifesto).
Il dibattito si solleva parlando di libertà religiosa, l'islamica ammette questa usanza, e rispetto della legge. Va ricordato, per trovare risposta, che poligamia di per sé è un termine sbagliato. Si dovrebbe parlare sempre di poliginia: il matrimonio con più donne. Monopolio degli uomini, raro sfizio femminile. Condanna certa in alcuni Paesi, come le cronache – non tradite, purtroppo – raccontano.

giovedì 30 settembre 2010

Iran: Sakineh & co.

Carcere, torture e calunnie contro la rete delle attiviste iraniane

Shahrzad Kariman è riuscita finalmente a vedere sua figlia Shiva Nazar Ahari per pochi minuti nel Tribunale di Teheran dove la 26enne attivista dei diritti umani era stata condotta per essere processata. “L’abbiamo appena vista”, ha detto Kariman. “Solo il tempo di abbracciarla. Ma non abbiamo nemmeno potuto chiederle come era andato il processo”.
I capi d’imputazione sono gravissimi per l’Iran: muharebeh (guerra contro Dio). In teoria un reato punibile con la pena capitale, mai contestato prima ai dissidenti politici. Ma l’accusa forse più grave – negata sia dalla sua famiglia che dalla sua organizzazione – è quella di collusione con il gruppo Mujaheddin-e Khalq ritenuto dal regime un’organizzazione terroristica.
Secondo la sua famiglia Shiva Nazar Ahari condanna questo gruppo e il terrorismo. Arrestata due volte dopo le elezioni del giugno 2009 e detenuta nella famigerata prigione di Evin, Nazar Ahari, dal dicembre scorso non ha potuto comunicare con l’esterno.I loro volti visti da mezzo mondo.
Assieme a lei è stata arrestata Mahboubeh Abbasgholizadeh, attivista e cineasta che successivamente è riuscita a lasciare il Paese ed è stata condannata in contumacia a due anni e mezzo di reclusione. Nei 15 mesi trascorsi dalle elezioni-truffa, i volti di queste e di altre donne sono stati visti in tutto il mondo. Accanto ai loro ci sono i volti delle donne morte, come Neda Agha-Soltan, assassinata il 20 giugno 2009 durante una manifestazione di protesta. Oltre alle attiviste, altre donne iraniane sono diventate tristemente famose perché minacciate di essere giustiziate. Emblematico il caso di Sakineh Ashtiani, la 43enne madre di due figli condannata alla lapidazione per adulterio. È semplice la ragione per cui c’è uno stretto legame tra le donne che si battono per i diritti e Sakineh Ashtiani. Le loro storie riflettono aspetti diversi della tragedia iraniana: il ruolo delle donne e la reazione del regime pronto ad accusarle dei reati più inverosimili e a processarle senza garanzie.
Una cosa è certa: il Movimento Verde nato sull’onda delle elezioni del 2009 ha messo al centro della sua protesta i diritti delle donne. La dottoressa Ziba Mir-Hosseini, un’attivista che vive e insegna a Cambridge, sostiene che, considerata la storia dei diritti delle donne in Iran, era inevitabile che le donne fossero in prima linea nella lotta tra “dispotismo e democrazia. È una tensione esacerbata dal contraddittorio atteggiamento della Rivoluzione islamica del 1979 nei confronti dei diritti politici delle donne. Le leggi sulla parità di diritti in seno alla famiglia e in materia di divorzio introdotte dallo scià, furono abrogate dopo la sua caduta. La Rivoluzione islamica permise alle donne di continuare a votare, ma gradualmente tolse loro diritti con il pretesto di difendere il loro onore’”.
“Mohammad Khatami durante gli 8 anni di presidenza e di governo riformista istituì un ‘Centro per la partecipazione femminile’ grazie al quale il numero delle Ong femminili passò in Iran da 45 a oltre 500”, aggiunge Ziba Mir-Hoseini. “E si andò affermando nelle giovani generazioni il femminismo, parola che nei primi anni ’80 non poteva essere nemmeno bisbigliata.
Nel 2006, un anno dopo l’elezione di Ahmadinejad, sebbene la campagna tutta al femminile “Un milione di firme” fosse riuscita a bloccare temporaneamente la riforma del diritto di famiglia voluta dal nuovo presidente che avrebbe reso la poligamia più facile per gli uomini e il divorzio più difficile per le donne, il ruolo sempre più attivo delle donne nelle manifestazioni di protesta finì per mettere le attiviste in rotta di collisione con i falchi del governo.“Le donne erano in prima fila ed è anche per questo che tra i principali obiettivi del governo c’è l’attacco ai diritti delle donne”, dice Maryam Namazie dell’organizzazione ‘Solidarietà con l’Iran’.Ma, con l’eccezione del premio Nobel Shirin Ebadi, l’attivismo delle donne in Iran era praticamente ignorato dagli organi di informazione internazionali prima del 2009.
Poi c’è stato il cosiddetto “effetto Neda” e il mondo ha cominciato a occuparsi delle donne che in Iran si battono per la democrazia.Un ultimo elemento è la condanna a morte per lapidazione di Sakineh. La vicenda ha dimostrato al mondo quanto le attiviste iraniane andavano dicendo da tempo, vale a dire che era in atto il tentativo di azzerare completamente i diritti delle donne. Arrestata a luglio 2009 mentre stava andando all’Università di Teheran, Shadi Sadr, avvocato, è stata rinchiusa nel carcere di Evin in isolamento e interrogata sulle attività dei movimenti femminili e sulle elezioni per poi essere incriminata di attentato alla sicurezza nazionale. Due giorni dopo l’inizio del processo Shadi Sadr è fuggita in Turchia. Parlando dei suoi tentativi di difendere Nazar Ahari, Shadi Sadr dice: “Non mi è mai stato permesso di vedere Shiva. Poi sono stata arrestata e, per ironia del destino, sono finita nella stessa cella dove era stata rinchiusa. Sul muro della cella c’erano ancora i messaggi scritti di suo pugno. Un avvocato e la sua cliente nella stessa cella. Una cosa impensabile. Non mi era stato permesso di ascoltare cosa aveva da dire, ma l’ho letto sul muro della cella.
L’arresto di Shiva e in particolare l’accusa di muharebeh, sono un messaggio chiaro alle attiviste: smettetela se non volete essere uccise”.Le vicende di Shadi Sadr, Shiva Nazar Ahari e Mahboubeh Abbasgholizadeh sono quanto mai istruttive. I loro casi sono stati utilizzati come pretesto per smantellare il movimento dei diritti delle donne e per ridurre al silenzio le donne agitando la questione della sicurezza nazionale.
Il regime ha parlato di legami con il “terrorismo” o di collaborazione con Paesi stranieri allo scopo. Lo scopo, dice Parisa Kakaee, veterana del movimento dei diritti delle donne, è quello d’offrire alle attiviste 3 alternative: “Stare zitte, andare in prigione o lasciare il Paese”. Sempre meno, e meno libere. Il mese scorso è stata la volta di Nasrin Sotoudeh, 45 anni, avvocata e collega di Shirin Ebadi che nella sua carriera ha difeso molte attiviste. Nasrin è stata avvicinata da agenti dei servizi e minacciata di essere arrestata se avesse continuato a patrocinare la premio Nobel che è riuscita a lasciare il Paese un giorno prima delle elezioni. Qualche giorno dopo Nasrin Sotoudeh è stata arrestata. Commentando il suo arresto, Shirin Ebadi dice: “La sola ragione per cui è stata arrestata è perché difende senza paura le attiviste incriminate per la loro azione politica. Dopo le elezioni si è intensificata l’azione di intimidazione nei confronti degli avvocati, in particolare delle donne. Molte sono state costrette a lasciare l’Iran e alcune sono in prigione. Nasrin era tra le poche avvocate e attiviste ancora a piede libero”. Shirin Ebadi è sicura delle ragioni per cui il regime ha paura delle donne: “Ricordate bene le mie parole: saranno le donne a portare la democrazia in Iran”.


(di Peter Beaumont e Saeed Kamali Dehghan. Copyright: The Guardian. Versione italiana Il fatto quotidiano – Traduzione di Carlo Antonio Biscotto)

mercoledì 29 settembre 2010

L'orda di oggi...

i ratti frontalieri


"Quando gli albanesi eravamo noi, era solo ieri"

"L'Orda". Tra i libri del giornalista Gian Antonio Stella, questo è quello che più mi ha colpita, perché capace di smuovere con la sola parola le coscienze sonnolenti. Si parlava di un passato, l'emigrazione italiana, contrapposto a un oggi che ha trasformato gli italiani da vittime a giudici. Ma i serafici svizzeri ci ricordano che non è così: ci hanno giudicato, come sempre come tanti. Eppure, quel che è peggio, ci hanno paragonati a "ratti" affamati di lavoro (leggi l'articolo di Repubblica.it). Topi ciccioni che si chiamano Fabrizio (il ratto manovale) e Giulio (il roditore avvocato), e Bodgan. Bodgan, perché oltre agli italiani gli indesiderati sono anche i romeni (vedi il sito "Bala i ratt"). Romeni: nell'immaginario tanto vicini agli albanesi, quelli del titolo del libro di denuncia di Stella. I curatori del sito che accompagna la campagna, diffusasi su Facebook e poi fattasi pubblicità, dicono di non essere contro i 45mila frontalieri che varcano il confine ogni giorno, ma di voler proseguire la loro battaglia per garantire una tutela agli svizzeri (Verbanianews). Niente da dire, ma se così fosse i ratti se li sarebbero potuti evitare. Non fosse altro perché si tratta di lavoratori, stretti in una polemica che dura da tempo. A dimostrazione che vittime e giudici sono titoli opposti quanto sovrapponibili. Nei secoli dei secoli e in ogni dove: "... l'orda di ieri".



... l'orda di ieri. Ratti nei secoli.


"La discarica senza legge": l'invasione giornaliera dei nuovi immigrati direttamente dai bassifondi d'Europa (Fudge, 6 giugno 1903)

sabato 25 settembre 2010

Laura: un prete ha abusato di lei. La sua vita amorosa stravolta

"Erano giovani, belli, intelligenti, puliti. Molti li ho ritrovati su Facebook, sono rimasta annichilita nel sapere che erano ancora in contatto con quel prete. Soprattutto se penso a quello che hanno subito, più grave e pesante ancora di quel che è toccato a me, forse perché ero una bambina e loro dei maschietti. Gli abusi e le violenze che abbiamo patito hanno cambiato per sempre la nostra vita, non c'è risarcimento per qualcosa che ti impedisce di essere te stesso, ti fa perdere la fiducia, stravolge per sempre la tua vita amorosa".
Laura M. ha 35 anni, un compagno, un lavoro da insegnante in un piccolo centro del nordest. Insieme a quello di molti altri sconosciuti che hanno risposto all'appello il suo sarà uno dei racconti che oggi a Verona vorrebbe cambiare la storia italiana delle vittime della pedofilia nelle chiese, nei seminari, nei collegi. Quelle vittime di preti pedofili che - secondo il gruppo 'La colpa' (infolacolpa. it) che ha organizzato l'incontro al Palazzo della Gran Guardia, scegliendo non per caso uno dei luoghi più visibili della città - in Italia fanno ancora così fatica a denunciare gli abusi subiti, a essere creduti, a ottenere giustizia.
Il racconto di Laura è arrivato prima con una timida mail: "Gentili signori, ho visto il vostro annuncio su Internet. Non so se il mio caso vi può interessare perché non mi sono mai rivolta alla polizia e ancora oggi non ho il coraggio di svergognare quel prete, che sia pure molto anziano è ancora presente nella sua comunità".
Dall'altra parte, la donna ha trovato incoraggiamento e comprensione: "È capitato anche a noi, a volte si convive tutta la vita col peso di un'ingiusta vergogna". Così, è riuscita a continuare: "Avevo 11 anni quando ho sentito per la prima volta su di me il sesso di un uomo. Era il mio parroco, e ogni scusa era buona per restare solo con me e attirarmi in casa sua, sopra la sacrestia. Io resistevo, ma ero debole, indifesa, non capivo quanto fossero gravi quelle molestie e non avevo il coraggio di ribellarmi a un adulto del quale mi fidavo ciecamente. Lo scandalo scoppiò quell'estate, un ragazzino più piccolo raccontò a casa quel che gli stava capitando e scoprimmo così che la cosa andava avanti da anni, che alcune famiglie avevano cambiato parrocchia senza però mai pensare a proteggere i figli degli altri...".
Ma, come in molti altri casi, le gerarchie locali scelsero di insabbiare il caso: "Quel prete lo trasferirono per due anni al Tribunale ecclesiastico, poi gli affidarono un'altra parrocchia, poi ancora un'altra, neppure troppo lontana. Andai dal padre spirituale del collegio, mi disse di non parlare e che potevo continuare a volere bene al mio parroco... Dopo, venne un altro prete, un uomo di grande moralità, è grazie a lui se non ho smesso di credere in Dio. Ma per anni e anni non ho potuto avvicinare un uomo, non sopportavo neppure l'idea e soffrivo ancor di più pensando ai miei amici, quelli con cui ho diviso gli anni che dovevano essere i più belli.
Ora so che molti di loro non hanno potuto farsi una famiglia né essere felici, e non riesco a perdonare". Resta un peso difficile da cancellare: "Ho cambiato città, mi sono allontanata, a trent'anni mi sono fidanzata, ma ancora non riesco a pensare a dei figli. E vorrei far qualcosa per non lasciare più che la vita di un bambino sia compromessa per un sistema malato, che la vita di un adulto sia sprecata. Naturalmente non farò il nome dei miei amici. Vorrei poter dir loro del mio affetto, ma consegno la mia esperienza come la denuncia del nostro male".
Storie come quella di Laura hanno convinto il gruppo originario dei fondatori di 'La colpa', perlopiù ex allievi del 'Provolo', la scuola per bambini sordi di Verona dove decine di allievi sarebbero stati abusati, che era giunto il momento di uscire allo scoperto. "Vogliamo offrire a tutte le vittime di preti pedofili italiani il sostegno psicologico che è indispensabile, perché queste violenze sono paragonabili a quelle familiari anche per le conseguenze che lasciano - spiega Salvatore Domolo, 45 anni, il portavoce, che ha alle spalle una storia di bambino abusato e di ex prete - e il sostegno legale. Ma non ci interessano i risarcimenti, quanto l'urgenza di un'azione legale verso la Chiesa cattolica per crimini contro l'umanità. E il 31 ottobre saremo a Roma, insieme alle vittime da tutto il mondo, per manifestare con le nostre facce e le nostre storie quello che è accaduto anche in Italia, a centinaia di bambini e di ragazzi".

(di Vera Schiavazzi, La Repubblica)

giovedì 26 agosto 2010

Messico: in centinaia arrestate per un aborto. Molte sono vittime di stupri

“Alle donne che vengono picchiate dai mariti, si consiglia di rassegnarsi, ridere e raccogliersi in preghiera”. Lo prescrive la regola della Tripla R.
“Le donne nel momento in cui sono violentate secernono un liquido spermicida, che le protegge dalla gravidanza”.
“Per amore o per violenza l'aborto è un delitto”: gli aborti spontanei per denutrizione o per qualsiasi altro tipo di limitazione fisica, vengono puniti con pene fino a 35 anni di carcere. E quelli che vengono realizzati in forma volontaria, anche.

La denuncia sul blog di Jaime Avilés (leggi il post). Corre infatti sul filo di queste prese di posizione, che hanno dell’incredibile, la campagna di sensibilizzazione lanciata da Desfiladero per l'immediata liberazione di alcune contadine messicane condannate all’ergastolo per aver abortito, una di queste dopo aver subito uno stupro. La campagna dovrebbe avere come asse centrale il Centro Las Libres, le cui operatrici lottano nello Stato di Guanajuato per i diritti delle donne. Basti pensare che in questo momento, proprio a Guanajuato, altre 166 donne sono state consegnate dai loro “medici” alla polizia. Di queste, 43 si trovano a disposizione del giudice per essere sottoposte a un processo penale.

Una notizia, quella dell’arresto delle contadine, che si somma a tante altre, lungo gli anni. Si leggeva pochi giorni fa sulla rivista Latinoamerica e tutti i Sud del mondo:

In Messico per il 90% degli omicidi non si apre neanche un’inchiesta […] Secondo uno studio della Commissione per i diritti umani dello Stato di Guanajuato, le 166 donne attualmente in carcere solo in quello stato (è difficile non notare che siano ben di più dei cosiddetti prigionieri politici cubani) sono praticamente tutte contadine analfabete, spesso già madri di vari figli e in molti casi vittime di stupri.

È il combinato disposto, perverso, di due leggi che sono oramai applicate in 18 stati della federazione messicana che si sono mossi in senso opposto alla capitale federale, Città del Messico, dove dal 2007 l’aborto è legale nelle prime 12 settimane di gravidanza. Da una parte il feto è divenuto una persona a tutti gli effetti fin dal momento del concepimento. Dall’altro le leggi sulla violenza familiare, in genere completamente disattese contro gli uomini violenti, diventano un macigno nel caso dell’aborto. Così l’aborto è passato in molti stati dall’essere condannato con pene tra i sei mesi e i tre anni di carcere all’essere considerato come ‘omicidio volontario aggravato dalla relazione di parentela’ e comportare quindi pene che arrivano a corrispondere al nostro ergastolo.

Nel paese dei Legionari di Cristo, dove consideravano un santo il fondatore degli stessi il pedofilo e stupratore seriale Marcial Maciel, “dopo la sconfitta di Città del Messico –sostiene María Consuelo Meijía Direttrice dell’organizzazione ‘Donne cattoliche per il diritto di scegliere’- l’ultra-destra conservatrice e le gerarchie cattoliche hanno ottenuto la loro vendetta negli stati più arretrati”.

I dati: 800mila gli aborti clandestini ogni anno contro i circa 40.000 aborti legali che avvengono in strutture pubbliche a Città del Messico. La battaglia politica, anche a livello di riforme costituzionali, è in corso.

Una sfida anche per le donne impegnate in politica. Scriveva già un anno fa la giornalista messicana Sara Rovera (leggi):

“Alla fine della LX legislatura messicana, Elsa Conde, del partito socialdemocratico, membra del gruppo che in questa legislatura ha riunito le femministe ha rivelato che le deputate progressiste hanno dovuto affrontare da vere e proprie resistenti molte azioni, alcune delle quali fallite, portate avanti contro il progresso delle donne […] A cominciare dalle bordate contro la contraccezione di emergenza (pillola del giorno dopo), a seguire con un errore nella riforma elettorale che, invece di aumentare i seggi per le donne li ha diminuiti; il priismo si è affiancato al panismo, per cercare di modificare la Costituzione in 14 entità del Messico con lo scopo di attribuire al neonato personalità giuridica ed eliminare quelle eccezioni che consentono l’aborto legale […] ed è stato riconosciuto che ci sono stati molGrassettoti passi indietro e che addirittura incombe la minaccia che la proibizione assoluta dell’aborto venga portata davanti al Congreso Nacional e che venga ristretto l’uso di anticoncezionali”.

I 31 Stati federali che compongono il Messico non si smentiscono, come riporta Peace Reporter in un articolo di maggio. Una condizione, quella messicana del tutto simile a quella di altri Paesi limitrofi.

Lo denuncia Amnesty International parlando di Nicaragua, in cui una legge vieta totalmente l’aborto. Tanto che sarebbero negate le cure mediche a donne e ragazze vittime di stupro e incesto, e obbligate a partorire.

I dati raccolti da Semlac in una inchiesta (leggi l’approfondimento) tristemente confermano:
“Tre milioni di donne, quasi la popolazione totale dell’Uruguay, ricorrono ogni anno all’aborto in 12 paesi dell’America Latina e Caraibi. Altri tre milioni vi ricorrono in Brasile. La stragrande maggioranza lo fa clandestinamente poiché le leggi delle nazioni in cui vivono, criminalizzano questa pratica”.


Giovanna Boglietti

mercoledì 25 agosto 2010

Afghanistan: apre la prima scuola di giornalismo per sole donne

Nella provincia di Herat, con il sostegno del contingente italiano.

Fare la giornalista in Afghanistan può essere molto pericoloso. Le donne che si avventurano in quel campo fronteggiano quotidianamente aggressioni, spesso rischiano la vita. A poche ragazze viene in mente di studiare giornalismo.

Tre giornaliste afghane hanno deciso di sfidare questa tendenza. Hanno fondato tre mesi fa il primo centro di giornalismo del paese rivolto esclusivamente alle donne. L’obiettivo è formare laureate in giornalismo ed aiutarle a trovare lavoro nel mondo dei media nella provincia di Herat e in quelle vicine.

L’Università di Herat aveva già incominciato otto anni fa un programma aperto alle aspiranti giornaliste. Ma le ragazze che si diplomavano lì, circa venti all’anno, «Finivano coll’insegnare nelle scuole, perché non trovavano posto nei media locali o per pregiudizi sociali», dice Fawzia Fakhri, direttrice del nuovo centro. Il centro nasce quindi «per incoraggiare le donne che hanno studiato quattro anni per diplomarsi in giornalismo».

Fawzia Fakhri ha 30 anni, ha dovuto faticare molto per arrivare dov’è adesso. Brillante studentessa all’universita di Kabul, si è laureata nel 1996. Voleva diventare un medico. La sua carriera viene bruscamente interrotta quando i talebani prendono il potere. Si iscrive allora a una scuola per ostetriche, l’unica possibilità per una ragazza che voleva studiare medicina. Caduto il regime, cerca di riprendere il suo sogno, ma stavolta è la famiglia ad opporsi. Oggi ha alle spalle quattro anni in una stazione radiofonica di sole donne, Radio Sahar e collabora anche con giornali locali.

«In passato ci sono stati almeno tre centri dedicati al giornalismo – dice la Fakhri – ma non ci sono mai andata: le donne non erano mai invitate». La sua scuola, invece, avrà corsi pratici in tutti i settori. L’obiettivo è aprire un sito web, una radio e una televisione tutte al femminile. «Abbiamo bisogno del sostegno dei governi e delle organizzazioni internazionali», dice Fawzia. Ad oggi sono già arrivati quattro computer dal team italiano per la ricostruzione della provincia.

martedì 17 agosto 2010

Germania: popstar a processo per aver trasmesso l'Hiv ai suoi partner. "Ho accantonato il rischio"

“In schlichter dunkellila Baumwollbluse, Jeans, flachen Schuhen und mit zum Pferdeschwanz gebundenem Haar, tritt nicht auf wie ein Popstar aus der Glitzerwelt des Musikbusiness, sondern als eine in sich gekehrte, sanfte, junge Frau, die sich ihrer Verantwortung, gegebenenfalls auch ihrer Schuld, durchaus bewusst ist”.

Una camicia di cotone viola scuro, jeans, una coda di cavallo. Non è una popstar quella che si presenta in aula, ma una ragazza giovane che dimostra pentimento, consapevole di quale sia la sua responsabilità. Lo Spiegel descrive così l’abbigliamento e il piglio di Nadja Benaissa, una delle quattro cantanti del gruppo femminile più amato in Germania, le No Angel (guarda la partecipazione al programma Fernsehgarten 2009).


Benaissa si è presentata ieri all’apertura del processo che la vede imputata a Darmstadt, con un’accusa pesante: aver infettato consapevolmente alcuni partner, non dicendo loro di avere l’Hiv.

“Warum verschwieg Benaissa ihre Krankheit - obwohl sie doch gewusst haben musste, dass sie die Männer durch ungeschützten Sex anstecken konnte? Diese Frage steht im Zentrum des Prozesses”.

Come scrive il quotidiano tedesco, proprio l’omertà della cantante - che sapeva della sua malattia – sarà il punto focale del processo. La difesa dovrebbe puntare sulla vita difficile della ragazza, 28 anni, una figlia di 11. Brutte compagnie e le prime sbandate da adolescente, alcol e marijuana, fino alla dipendenza da crack, lo stop del percorso scolastico e la vita sulla strada. I genitori, un marocchino e una tedesca di origine rom, cercano di riportarla sulla retta via e lei esce dall’incubo. Fino al 1999, l’anno in cui scopre di essere malata di Hiv, facendo un test di gravidanza.

"Meine ganze Sorge galt nun meinem ungeborenen Kind", berichtet sie. "Ärzte versicherten mir, die Ansteckungsgefahr sei äußerst gering, wenn ich diszipliniert lebte und meine Medikamente regelmäßig einnähme." Daher habe sie die Krankheit Freunden und Bekannten gegenüber verschwiegen. "Ich sah keinen Anlass, die Krankheit öffentlich zu machen, da ja ein Ausbruch nicht zu erwarten war."

“Il mio unico pensiero andava alla bambina non ancora nata. I medici mi assicurarono che il pericolo di contagio per la piccola era da escludersi, se avessi vissuto in modo disciplinato e avessi preso i medicinali regolarmente”. Così ha nascosto ad amici e familiari la malattia. “Non vedevo alcun motivo di renderla pubblica, e non mi sarei aspettata una bomba simile”.

La ragazza non molla. Nel 2000 inizia la sua carriera musicale che la porterà a vincere con la band No angel il talent-show più prestigioso in Germania.

"Ich hatte die Vorstellung: Ich kann die Infektion nicht öffentlich machen, ohne die Karriere der Band zu beschädigen".

“Avevo in mente: se faccio sapere che sono malata, la carriera della band si rovinerà”.

"Ich suchte nach einer festen Beziehung", sagt Benaissa. "Ich suchte einen Mann, der auch meine Tochter akzeptiert und von ihr akzeptiert wird. Aber dann merkte ich, dass das fast unmöglich ist." Sie ging flüchtige Beziehungen ein, über Verhütung sei nicht gesprochen worden. "Meine Partner waren da sehr sorglos".

“Cercavo una relazione stabile, un uomo che accettasse anche mia figlia e che fosse accettato da lei. Ma poi ho capito che questo non era possibile”. Passava di relazione in relazione, senza mai parlare di contraccezione per essere protetti. “I miei partner non se ne preoccupavano minimamente”.

"Ich wurde nie gefragt, ob ich verhüte", sagt sie. Warum sie die Infektion verschwiegen habe, will der Richter wissen. "Ich weiß nicht", sagt sie, "ich hatte einfach eine tierische Angst."
“Non mi hanno mai chiesto di usare contraccettivi”. Se le si chiede perché ha nascosto la malattia, la cantante risponde: “Non lo so. Avevo semplicemente una paura bestiale”.

Cinque uomini potrebbero pagare il suo silenzio, la leggerezza dei rapporti non protetti. Uno di loro, assistente artistico di 34 anni, ha contratto l’Hiv ed è tra quanti hanno denunciato la cantante. Negli altri quattro casi, dove il contagio non è avvenuto, la denuncia è per tentate lesioni personali aggravate.

"Ich habe Fehler gemacht. Ich hatte eine Verantwortung. Ich habe das Risiko verdrängt. Ich habe nicht gewollt, dass sich jemand bei mir ansteckt. Ich hätte mit dem Thema verantwortungsvoller umgehen müssen."


Si dichiara colpevole: “Ho sbagliato. Ho una responsabilità. Ho accantonato il pericolo. Non volevo che qualcuno mi scoprisse. Avrei dovuto agire con coscienza”.
E la vittima cosa ha detto in aula?
"Ich? Ich soll mit der da Kontakt aufnehmen?" Er streift sie mit Blicken. "Bin ich etwa in der Bringschuld?" Benaissas Tante habe ihn damals über die Infektion ihrer Nichte aufgeklärt. "Wenn die mir das nicht gesagt hätte - ich wäre dumm gestorben!", empört sich der Mann. "Ich hätte ja Tausende Frauen anstecken können!" Er sei mit ehemaligen Sexpartnerinnen zum Arzt gegangen, damit diese sich testen lassen. "Wissen Sie, wie unangenehm das ist?", fragt er den Vorsitzenden, woraufhin Verteidiger Wallasch Benaissas Geständnis erwähnt.
“Io dovrei avere contatti con lei?”. La fulmina con gli occhi. “Sono io in debito? Se sua zia non me ne avesse parlato io a quest’ora sarei morto. Ho avuto un sacco di donne che potevano ammalarsi!”. L’uomo è andato dal medico per sottoporsi al test con la sua compagna ufficiale. “Vi rendete conto che non è possibile tenerlo nascosto?”.

Eppure la cantante ha tenuto tutto nel silenzio, fino a pochi mesi fa. Lo scorso novembre Benaissa si è presentata a una serata di beneficienza a Berlino ed è salita sul palco dicendo: "Il mio nome è Nadja Benaissa, ho 27 anni, ho una figlia e sono sieropositiva". Semplice, ma fatale. Ora rischia fino a 10 anni di carcere. Quel che ha da dire non è che: “Mi dispiace di cuore”.




Giovanna Boglietti

venerdì 13 agosto 2010

Messico: Ciudad Juarez, la città dei femicidi e
dei narcos. Adesso parlano le madri di famiglia.


Da una parte i narcos, dall’altra le madri. In mezzo una distesa di croci rosa, piantate nella terra per ricordare centinaia di donne massacrate brutalmente. La frontiera tra Messico e Stati Uniti separa due territori, ma al di qua della linea ci sono altri fronti contrapposti, fronti interni che l’occhio straniero fatica a riconoscere.

Verso la frontiera tra Messico e Stati Uniti sorge Ciudad Juarez, la città considerata la più pericolosa al mondo, roccaforte del traffico di uomini e droga in viaggio verso la patria a stelle e strisce, nonché teatro di uccisioni e sparizioni di giovani donne da più di una decina d’anni (un video d’inchiesta). Ma a parlare adesso, oltre ai parenti delle vittime che si sono organizzati nell’associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa, sono anche le madri dei futuri abitanti di Ciudad.

Lo fanno attraverso un video, "Educare Ciudad Juarez" girato dalla fondazione Omnilife e pubblicato su internet, per raccontare di quanto i loro figli abbiano bisogno di una buona educazione per crescere e cambiare, il minimo ma quanto manca. La nuova scuola elementare porta i bambini a socializzare e a sviluppare un senso di solidarietà e comunione. Valori che esportano anche agli adulti: “Imparano e poi ci insegnano cose che noi non sappiamo”, confessa una madre.


Associazioni di vario genere, in testa Amnesty International, continuano a chiedere di intervenire contro le violenze di Ciudad. Ma le notizie non si fermano. Questa mattina un articolo sul sito del Corriere della Sera parlava delle fotografie trasmesse dalla dogana statunitense per svelare i trucchi usati dalle gang, allo scopo di superare i controlli: immigrati “travestiti” da sedile, clandestini nascosti nel motore, droga infilata in nascondigli ingegnosi come pompe e idranti, fogli per rivestimenti, impasti da mattoni. Tanto che il presidente Obama ha assicurato che da ottobre, insieme alla Border Patrol, saranno schierati anche i soldati della Guardia nazionale.

Nella “città-inferno” (come scriveva La Stampa) di Ciudad Juarez si registra il più alto numero di omicidi nelle guerre ingaggiate dal governo di Felipe Calderon contro i narcos e dai diversi cartelli della droga fra di loro. Una serie di scontri, massacri e omicidi, dal 2006 a oggi, ha portato a 28 mila morti.

Non solo, l’Ansa riporta che a crescere è anche “la collusione tra le organizzazioni criminali e alcuni membri delle forze dell'ordine a libro paga dei narcos. Per ovviare alla corruzione della polizia, che pure ha pagato un alto tributo di sangue in questa guerra con quasi tremila caduti in tutto il Paese, il presidente Calderon ha messo in campo l'esercito, ma la situazione non accenna comunque a migliorare”. Lo dimostra la rivolta del 9 agosto, quando trecento agenti della polizia federale messicana hanno preso d'assalto il loro comando, a Ciudad Juarez, per chiedere la destituzione del comandante, considerato collegato ai cartelli della droga.

Madri, donne assassinate o scomparse, droga. Tutto a Ciudad si mescola. Dal 1993, la città è il maggiore cartello di narcotraffico della cocaina colombiana diretta negli Stati Uniti. E proprio nel 1993 è iniziata la serie di omicidi, rapimenti e violenze ai danni di donne giovanissime: 600 in questi diciassette anni, delle quali 460 ritrovate (le altre forse sono state sciolte per “lechada”, nell’acido). Sette vittime in ventiquattro ore solo all’inizio di agosto (le statistiche e i dettagli). Donne alla mercé delle 500 gang che spadroneggiano in città.

Molte di queste donne, operaie di fabbrica (maquilladoras) malpagate, hanno subito stupri e torture prima di essere barbaramente strangolate o accoltellate. Innumerevoli anche le denunce di scomparse e altissimo il grado di impunità per questi delitti. A causa della corruzione e dell’inefficienza di polizia e magistratura finora sono ben poche le condanne definitive. Restano aperte svariate ipotesi sui delitti: dal traffico d'organi ai rituali di una setta satanica, senza escludere il fenomeno dell'imitazione, e sembra probabile l'esistenza di uno o più serial killer (di recente l’arresto di un americano).

Sulla storia di Ciudad Juarez è stato girato un film interpretato da Jennifer Lopez, “Bordertown”. Victor Ronquillo ne ha fatto prima un reportage televisivo poi un libro, “L’inferno di Ciudad Juárez. La strage di centinaia di donne al confine Messico-Usa” (B.C. Dalai Editore). Amnesty International ha cercato la sensibilizzazione tramite cartoline.

Già nel 2007, sul sito de Il paese delle donne, si leggeva:


“Polizia, magistratura, governo locale e federale minimizzano il numero di omicidi e anzi indicano nelle vittime le vere responsabili che passeggiavano in luoghi bui e indossavano minigonne o altre mises provocanti… Alla fine del 1999, alcuni cadaveri di donne e bambine furono ritrovati vicino ai ranch di proprietà di trafficanti di cocaina. Tale coincidenza sembrava stabilire un legame tra gli omicidi e la mafia del narcotraffico, a sua volta legata alla polizia e ai militari, ma le autorità rifiutarono di seguire questa pista preferendo piuttosto incolpare consapevolmente degli innocenti, tanto per placare un po’ l’opinione pubblica”.

Gli ultimi sette omicidi, in ventiquattro ore, allungano la lista delle vittime di quello che i parenti chiamano “femicidio”. La rete, che conserva fatti datati e recenti, continua a mobilitarsi: su Facebook da meno di un anno è stato attivato il
gruppo “Chiediamo Giustizia per le donne e le bambine di Ciudad Juarez”. Emblematico il commento di Ilaria, una dei membri:

"La cosa più grave è che di questa terribile verità nessuno vuole parlare... Se non fosse stato per il film, in Italia, la conoscerebbero in pochi...”.



Giovanna Boglietti