martedì 6 ottobre 2009


LA SICILIA CHE RESISTE
Messina come Sarno. Almeno quattro i paesi piegati dall'alluvione


Resiste sotto la pioggia il castello normanno e resistono loro, gli abitanti di Scaletta Zanclea, il paese più colpito della provincia di Messina che l’alluvione di questi giorni ha sepolto sotto il fango e le macerie. Ha ricominciato a piovere nel primo pomeriggio, sulla costa nord-orientale della Sicilia, ma niente sembra poter fermare il lavoro dei soccorsi. Scaletta, Giampilieri, Briga Marina, Tremestieri: sono questi i nomi delle località martoriate dal maltempo. In questi centri si contano decine di vittime, tanti dispersi, abitazioni distrutte: impossibile per ora azzardare numeri. E intanto si scava, con le mani o con qualsiasi strumento, con o senza ruspe, nel fango. Scavano gli abitanti e i volontari. In alcune zone i soccorsi volano e trasportano i feriti nei vicini ospedali, la strada che conduce ai centri è una, interrotta o soffocata dal traffico.“Molti sono partiti già stamattina, perché ieri la situazione non era migliore” spiega la receptionist dell’Hotel Europa, sulla strada di Tremestieri “Qui abbiamo un’ottantina di camere libere, i nostri clienti sono lavoratori che il venerdì ripartono, quindi ospiteremo tutti coloro che hanno perso la casa in questa tragedia. Manca il nostro capo sala, lui abita in centro paese e non è potuto scendere. Sta dando una mano alla Protezione Civile”.Le precipitazioni di giovedì – dicono in molti – sono state auspici neri. C’è qualcuno che a casa non è potuto tornare, come il titolare della palestra della Polisportiva di Scaletta Zanclea: “Le strade erano impraticabili, non mi sono fidato. Mi hanno ospitato degli amici, ma in paese ho lasciato i miei genitori. Loro stanno a 5 chilometri dal luogo del disastro, quindi sono in salvo e non hanno avuti grossi danni”.Lascerà Messina per raggiungere Briga Marina uno dei membri della Associazione Nautica, che lì a ha la sua sede: “E’ sul mare, quindi mi hanno assicurato che i danni sono pochi, solo un po’ di fango. La spiaggia è salva, è il centro che è stato distrutto. Appena possibile, andrò anch’io a vedere”. I danni a Scaletta non si finiranno di contare, racconta Alberto, titolare di una casa vacanza: “Devo ancora controllare. La colata di fango ha spalancato la porta d’ingresso e rotto le finestre. Il primo piano è completamente sommerso. Altro non so, le linee dei telefoni fissi sono cadute e i cellulari hanno pochissima ricezione”.Ma i telefonini sono gli unici appigli alla vita, alla realtà che guarda da fuori il disastro. Cercano di parlare, di rispondere i sindaci di questi piccoli comuni, che sono a scavare fra la gente. C’è il sindaco Mario Briguglio tra gli abitanti di Scaletta Zanclea; c’è il primo cittadino di Itàla Antonio Miceli, che si è spostato a Scaletta per dare una mano: “Avevamo già un progetto per evitare la frana e le conseguenze dei nubifragi nei due comuni” spiega mentre corre per il centro, in perlustrazione “E’ la seconda volta che capita, solo che prima non c’erano stati i morti. Adesso pensiamo a mettere al sicuro la gente, ma è un vero disastro”.Di disastro annunciato parla anche Walter Manganaro, presidente dell’associazione Rufo Ruffo, che gestisce il castello normanno di Scaletta: “E’ andata persa la città artistica. Non è il momento per parlare di patrimonio culturale, perché si deve pensare alle vite sotto il fango, ma saremo costretti a vedere in futuro. Qui le strade sono occupate dai mezzi dei vigili del fuoco e della Protezione Civile, non si passa: il centro delle vie è lasciato libero per lo scorrimento dei mezzi. Alcuni abitanti stanno in municipio, altri alloggeranno nelle scuole. Per fortuna, abbiamo una linea di comunicazione con Catania, per il rifornimento e i soccorsi. Non ci sono più case, i palazzi sono squarciati: è una nuova Sarno. La pioggia insiste; eppure, il castello normanno è salvo. Noi lo vediamo dal basso del paese, e lui ci osserva, dall’alto del suo cucuzzolo”. Se resiste il castello, resisteranno loro.


Giovanna Boglietti

TRA LA CARNE E IL PESCE
Stranieri italiani, come Sanaa Dafani. I figli di immigrati si sentono “individui a metà”.

“Né carne, né pesce: probabilmente uovo”. Si definisce così Lucia Ghebreghiorges, di origine etiope, figlia di immigrati. Lei si occupa di comunicazione, il suo accento romano non la tradisce: Lucia è italiana. Ma anche una rappresentante di Rete G2, l’associazione nazionale fondata da figli di immigrati e rifugiati in Italia che hanno creato sul web un network per condividere le loro storie. Figli che hanno il compito, non sempre facile, di fare "da ponte" con le loro famiglie: “Fare parte di una seconda generazione vuol dire essere figli di immigrati, vivere la vita dei propri genitori non appieno ma per riflesso, e sentirsi completamente integrati nel territorio italiano. Eppure si oscilla nel mezzo e si ha la sensazione di dover badare alla famiglia, anche solo dal punto di vista linguistico. Detto questo, è vero che tra padri e figli è in corso un conflitto generazionale, ma si tratta di un passaggio che vive qualsiasi famiglia italiana. Le difficoltà si rintracciano nelle piccole cose, ma molto dipende dalle origini e dalla religione: i più chiusi sono i musulmani e i cinesi, però non è giusto generalizzare”. Di Hina Saleem e Sanaa Dafani, uccise perché amavano due italiani da famiglie che tuttora non si sono pentite, Lucia dice: “In quelle famiglie c’è mancanza di comunicazione. Il forte tradizionalismo impedisce agli adulti di capire come i figli si vedono nella società. Sono situazioni estreme, però; infatti, gli amori contrastati tra italiani e stranieri – si parla spesso di matrimoni misti – non fanno parte delle seconde generazioni perché queste condividono molto, se non tutto a volte, con i loro coetanei italiani”. Proprio l’Italia, secondo Lucia, dovrebbe tutelare i figli di immigrati: “Il 60 per cento dei bambini di immigrati nasce in Italia. Eppure, a un figlio di seconda generazione non viene garantito il diritto di cittadinanza e spesso neanche il rispetto culturale che gli si dovrebbe. Le terze generazioni vivranno meglio perchè saranno capite, ma devono acquistare un'identità. Non parlerei quindi solo di un problema “intra-etnico”, ma della necessità di far sentire italiano chi italiano, in fondo, lo è già”. (nella foto: Claudio Cintoli,"Uovo nuovo", 1975)


Giovanna Boglietti
La Lega vuole vietare il burqa in Italia
Arresto in flagranza, reclusione fino a 2 anni e una multa fino a 2mila euro. Tanto rischierà chi «in ragione della propria affiliazione religiosa» indosserà in pubblico indumenti che rendono «impossibile o difficoltoso il riconoscimento», se sarà approvata la proposta di legge presentata alla Camera dal gruppo della Lega Nord. Il testo di fatto chiede di vietare l’uso di burqa e nijab, ma senza menzionarli esplicitamente come invece fa la proposta a firma Souad Sbai già all’esame della commissione Affari costituzionali. E non a caso. Il Carroccio non vuole aprire una guerra di religione, ha fatto capire il capogruppo Roberto Cota nel presentare stamani a Montecitorio la proposta di legge. «Il nostro è un testo equilibrato», ha sottolineato.
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Il Grande Imam dei sunniti:«Il velo integrale non è Islam»
Che la laica Francia se la prenda con il burqa non sor­prende più di tanto. Che la som­ma autorità religiosa di tutti i musulmani sunniti condanni duramente il velo integrale può invece stupire. Eppure sheik Mohammad Tantawi, Grande Imam dell’Azhar, que­sta volta è stato chiaro. «Il ni­qàb , il velo che copre il volto, è una tradizione del tutto estra­nea all’Islam», ha detto a una stupitissima liceale visitando la sua scuola al Cairo. «Perché lo porti? Non è religione que­sta, e io di religione credo di ca­pirne più di te e dei tuoi genito­ri ». E ancora: «Emanerò una di­rettiva per proibire l’uso di que­sto velo in tutte le scuole di Al Azhar. Allieve e insegnanti non potranno più portarlo». A dife­sa della ragazza, racconta il quotidiano Al Masri Al Yawm, sono intervenute le professo­resse: «Se l’è messo quando è entrato lei, con le compagne non lo indossa». Ma l’anziano capo di Al Azhar ha ribadito il divieto, comunque e sempre.
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