giovedì 28 gennaio 2010

Fratelli d'Italia

Gli “altri” sono i francesi, i cugini con il naso all’insù che con noi amano rivaleggiare, come tutti i lontani parenti. “Loro” sono quelli che stanno di là, dietro la cordigliera alpina: sono i fratelli d’Italia, sconosciuti ma non dimenticati. “Loro” vivono nella Savoia e giù fino a Nizza, hanno nazionalità francese; eppure, sono stati piemontesi.
Ecco perché tra il 2010 e il 2011 a Chambéry, città cuore della Savoia, i festeggiamenti saranno doppi: quest’anno ricorrono infatti i 150 anni dall’annessione alla Francia (1860), l’anno prossimo sarà la volta di quelli per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Una affezione che probabilmente sorprenderà molti, ma che nell’intrico delle “traboules”, gli stretti passaggi medievali di Chambéry, e tutt’attorno alla Fontana degli Elefanti, è un modo di vivere, è il quotidiano.
Il simbolo di questa doppia identità, a Chambéry, ha un nome: Angela Caprioglio, presidente dell’Associazione dei Piemontesi in Savoia, costola dell’Associazione Piemontesi nel mondo che ha sede a Frossasco, in provincia di Torino. Il suo cognome tradisce origini italiane, ma Angela Caprioglio fa parte del consiglio comunale della città: “conseillère municipale déléguée aux jumelages et aux relations internationales”, delegata cioè ai gemellaggi e alle relazioni internazionali.
Le relazioni fra Chambéry e Torino sono da sempre intense. Le due città, unite da un gemellaggio dal 19 maggio 1957, hanno festeggiato tre anni fa i primi cinquant’anni di cooperazione, l’occasione per una mostra fotografica. Viene da Chambéry la Sindone, che prima di essere destinata a Torino è stata custodita nel Castello dei duchi di Savoia, fino al Cinquecento. Non solo, sulla carta la storia del Piemonte e della Savoia prende vita nelle storie che Angela Caprioglio ha raccolto con gli esperti François Forray e Michel Poët.
Domenico Perotto e Felicita Francesetti: questi i nomi di due dei giovani sposi che “Il lavoro nel cuore. Le coeur à l’ouvrage” (2004) ricorda, con tutti gli emigranti arrivati in Savoia dal Regno del Piemonte. Parlerà di Piemonte, dal 4 dicembre scorso e per tutto il 2011, l’esposizione “Ésperons que… Speriamo che…”, allestita nel salone culturale di Chambéry “André Malraux” per celebrare l’annessione alla Francia e i 150 anni dell’Unità d’Italia attraverso l’emigrazione: “Gli scambi prima e l'emigrazione poi sono stati tanto intenti che l'evento accomuna tutti noi italiani all'estero e assume ancor più importanza per noi Piemontesi in Savoia. Per questo le manifestazioni saranno ricche”, annuncia Caprioglio. Le fa eco il sindaco di Chambéry, Bernadette Laclais: “Lo spirito è di festa e di grande unione. Brilla ben al di là dei confini del dipartimento”. Conclusi ieri i corsi pubblici di storia della Savoia all’Università, da giugno gli Archivi Dipartimentali raccoglieranno immagini e documenti storici della mostra.
Tra gli eventi più interessanti dei doppi festeggiamenti spiccano: 12 marzo - 14 giugno: Esposizione “1860 e le celebrazioni del 1910 e 1960”; 12 marzo - 14 giugno: Esposizione “Lo spazzacamino, la marmotta e la montagna – Fra clichés e realtà, nascita della Savoia francese”; 21-22 maggio: Gastronomia Mercato dei produttori italiani in Place de l’Europe; 15 settembre: Esposizone “Chambéry città sarda”; 10 ottobre: Calcio Nazionale francese – Juventus; dicembre 2010: Cerimonia di chiusura delle festività e passaggio del testimone a Torino. Il programma dettagliato è sul sito http://www.chambery-tourisme.com.
Gli eventi ricordano che qui, nel cuore della Savoia, è la Francia; là, sempre dritto sempre avanti il Piemonte. Il cuore nel mezzo, spaccato in due metà perfette. Gli si dice alle piemontese: “Bogia nen”. Non ti muovere.

Giovanna Boglietti

mercoledì 27 gennaio 2010

Dal Corpo al... Volto delle donne


Dal corpo al volto. Volto come coppa, contenitore di emozioni; volto come storia; volto come personalità. È questa l’ultima frontiera della lotta alla mistificazione della figura femminile che Lorella Zanardo sta portando avanti a meno di un anno dalla diffusione del famoso documentario “Il Corpo delle Donne” (2009). Un lavoro per il quale la consulente e docente milanese, membro della WIN (organizzazione internazionale di donne professioniste con sede ad Oslo), ha messo la sua voce come grido di protesta contro i modelli svilenti di donna veicolati dalla tv. Realizzato in collaborazione con Marco Malfi Chindemi e Cesare Cantù, il documentario è stato trasmesso il 16 gennaio scorso anche dalla BBC.

Dal Corpo delle Donne al Volto delle Donne. Cosa cambia?

«Si tratta di una indagine più ampia a livello territoriale, che si fa internazionale. Il tema del corpo mercificato che abbiamo trattato per la prima volta in ambito italiano e soprattutto televisivo resta comunque sullo sfondo. Non parleremo solo di un volto trattato dalla chirurgia estetica, privato dei suoi connotati più veri, ma soprattutto della ricaduta sociale che la “scomparsa del volto” può avere. Cosa ne sarebbe delle nostre nonne, per esempio, se non le ricordassimo più per quella fisionomia che, pur imperfetta, le rendeva uniche, nostre? La scomparsa del volto cancella la storia e la personalità di una donna»

Il Corpo delle Donne continua a dare i suoi frutti, intanto.

«Il documentario ha fatto notizia. Concretamente abbiamo organizzato un corso di educazione all’immagine che invita a guardare con occhio critico il prodotto televisivo; non a caso l’abbiamo chiamato “Nuovi occhi per la tv”. È un progetto ambizioso, che ci sta portando in tutta Italia ma che non potremo continuare a portare avanti da soli, siamo volontari impegnati 14 ore al giorno. Speriamo, quindi, che il Ministero raccolga la nostra opera e che enti come Regioni e Comuni e associazioni locali facciano altrettanto. Questo perché per avere nuovi occhi per la tv serve un vero radicamento sul territorio. Noi abbiamo iniziato su richiesta dei tanti insegnanti che ce l’hanno chiesto sul nostro blog (www.ilcorpodelledonne.net). E’ importante parlare ai ragazzi, parlare nelle scuole, incitare il passaparola, seminare una cultura attenta»

Maschi e femmine. La rieducazione della ragazza passa anche attraverso quella del maschio?

«Assolutamente sì. Stiamo portando avanti una analisi parallela del maschio, perché in tv abbiamo la donna-merce tutta curve, ma nello stesso tempo abbiamo un maschio “minus habens” che pensa al sesso tutto il giorno. I ragazzi di oggi non sono tutti “tronisti”, benché resti una divisione di ceto fra di loro. I più istruiti si rifiutano di essere rappresentati come vogliosi: rispetto al vecchio maschio italico, il latin lover, sono evidentemente più europei»

Le ragazze si scostano dalle “veline”, ma seguono i modelli dominanti; non è così?

«È proprio così. C’è una Italia divisa in due: le ragazze che guardano tanta televisione, non la criticano e recepiscono tutti i modelli proposti, modelli di donna svilenti; poi ci sono le ragazze in gamba ma intrappolate in un contesto sociale che richiede condivisione e partecipazione. Lo dicono loro stesse, sul mio blog una studentessa di 16 anni, Letizia, scrive: “I tipi di donna che la tv propone non piacciono neanche a me. Gentilmente dottoressa, può spiegarmi però quali altri modelli esistano?”. Questo perché dobbiamo riuscire a dare ai giovani modelli alternativi. O meglio, più che di modelli parlerei di figure alle quali ispirarsi, e per questo esserne fiere»


Giovanna Boglietti

L'ultima rom di Torino sopravvissuta allo sterminio

Porrajmos” vuole dire “divoramento”. È lo sterminio dei rom, ma anche un dolore interno che a volte torna a manifestarsi. Questo divoramento Cena Huseinovic, l’ ultima sopravvissuta in Piemonte insieme alla consuocera Melica Muratovic, lo prova ancora. Dice “nervosa” e si commuove quando racconta la storia del suo popolo, lei che è scappata anche alla guerra in Yugoslavia e oggi abita in una baracca al campo di via Germagnano 10, senza riscaldamento e assistenza.

L’occasione per incontrarla è fornita da un incontro con le ragazze di “Idea Rom”, con l’associazione Romanò Ilò e l’Opera Nomadi, per il giorno della memoria. Ivana Nikolic, 19 anni, ascolta il racconto in quella lingua che non ha ancora imparato, il romanì, ma si commuove con tutti gli altri presenti.

Cena aveva circa 12 anni quando accadde. Viveva nelle tende in un campo in Bosnia con la sua famiglia e altre cinquanta persone: “Ero a Visegrad e gli cetnici (fascisti serbi, ndr) ci portarono via coi treni”. Prima a Sarajevo, e poi a Jasenovac, nella zona croata vicino alla Bosnia. “Per un mese siamo stati chiusi in un bunker al buio, mangiando solo tre patate e un pezzo di pane al giorno”. In questo campo di concentramento degli ustascia, fascisti croati, gli adulti erano destinati ai lavori forzati, per produrre mattoni e catene. Quando lo sforzo e la fame li indebolivano “gli ustascia li prendevano uno a uno, li ammazzavano e li buttavano nel fiume Sava. – racconta Cena – Non ne sapevamo nulla, fino a quando non abbiamo trovato i cadaveri nel fiume”.

continua su... Futura


di ANDREA GIAMBARTOLOMEI

lunedì 25 gennaio 2010

Malattie rare: non si osa pronunciarne il nome.


Fibrodisplasia, malformazione di Chiari, emiplegia altalenante. Parole difficili da pronunciare, difficili da capire, difficili da vivere. Se vivere è, ogni giorno, portare una croce di cui non si osa pronunciare il nome.


Fibrodisplasia, malformazione di Chiari ed emiplegia altalenante sono malattie rare, malattie delle quali si sa poco e che gettano i loro malati, le piccole vite che serrano in pugno, nella quasi completa solitudine. Sono malattie rare, ma tangibili: la fibrodisplasia corre nei muscoli di una bambina, colpisce una persona su 2 milioni. La malformazione di Chiari pulsa nella cefalea e dispnea, in formicolii e paralisi degli arti che interrompono la vita di una mamma di 40 anni, questa malattia è stata diagnosticata solo dopo 17 anni dalla sua comparsa. L’emiplegia invece si cova dalla nascita, è il calvario che paralizza per giorni un ragazzino di 17 anni. E poi c’è la siringomielia: cisti che spuntano nel midollo spinale.


Sono tante le malattie rare, tante e vuote a pronunciarle, brutte a conoscerle. Eppure andavano contate, e per la prima volta in Italia ne sono state censite 435. 435 malattie rare che colpiscono meno di 5 persone su 10mila; in tutto 5mila al mondo, secondo l’Oms. Un numero destinato a modificarsi perché non tutte le Regioni italiane hanno inviato i loro dati al Centro nazionale malattie rare dell’Istituto superiore di sanità, l’ente che ha condotto il censimento.


Censimento che, si augurano i diretti interessati e gli addetti ai lavori, potrà forse centralizzare l’attenzione su queste malattie e garantire il giusto coordinamento nel settore farmaceutico. Non c’entrano solo i farmaci chiaramente. Si aggiungono diagnosi tardive che favoriscono il progredire della malattia e trafile per i rimborsi delle spese mediche: i malati rari vivono una condizione doppiamente difficile. Solo Piemonte e Valle d’Aosta, dove viene curato il 30 per cento di questi casi, hanno incluso la siringomielia tra le patologie esenti da ticket, per esempio. I malati rari si sentono soli, hanno scritto anche al ministro della salute Ferruccio Fazio. Ma la loro visibilità è poca, se altrettanto rara è la sensibilità di istituzioni e società civile.



Giovanna Boglietti


Federazione italiana malattie rare: www. uniamo.org

(nella foto, un lembo di pelle infettato dalla Ebs, una malattia rara scoperta negli Stati Uniti solo nel 2007)

venerdì 22 gennaio 2010

No Tav dell'altro mondo


Cantieri e carrotaggi, proteste e manifestazioni di contro-protesta; dall’altra parte, i lavori. E in mezzo le Alpi, che dividono anche questa volta, ora che il movimento No Tav della Val di Susa è tornato in azione e che i focolai di protesta francese sembrano storia vecchia.

“Non ricadrò per l’ennesima volta nella litania che ripete che sul versante francese regna il piattume assoluto”: scriveva così, solo qualche anno fa, uno degli attivisti del “Non au TGV Lyon-Turin”. Il movimento di protesta in Francia, lui, lo sentiva come appendice alle più accese rivendicazioni italiane e oggi forse ne sta avendo la prova. L’attenzione dei francesi sulle mosse dei No Tav in Val di Susa resta alta: ne hanno parlato Le Figaro come Libération, le seguono i giornali locali da Lione a Grenoble. Eppure, non vengono aggiornati da anni i siti dei collettivi, quali “Collectif lyonnais contro le TGV Lyon-Turin”, o di associazioni specializzate come l’Apsab (Association pour la Protection du Sillon Saint André Le Gaz Saint Béron concernant le projet ferroviaire du ferroutage Lyon Turin).

L’ultimo colpo di coda, in Francia, è stato quello delle associazioni Réagir et Vivre en Maurienne contro lo scavo di un secondo tubo all’interno del tunnel del Fréjus, nel cantiere del Tgv Lyon-Turin. “Halte à la mascarade. Basta con la pagliacciata”, è stato detto alla stazione di Modane il 14 novembre 2009, ma il presidio nei giorni successivi non ha avuto eco. Addirittura, in terra francese (Chambéry) la grande manifestazione No Tav del 2006 era stata organizzata dai valsusini: 6mila persone – ricordava La Stampa – ben pochi francesi e un solo sindaco presente, quello di La Chambre, Daniel Dufreney, che aveva detto disincantato: “Niente sollevazione di massa. Andrà come con la centrale nucleare: si farà, perché qui la maggior parte delle persone l’Alta Velocità la vuole”.

La voleva Jacques Villain, grenoblese, che nel 2006 postava su internet: “Le connessioni tra il Piemonte e la regione del Rhône-Alpes sono importanti per noi”. Oggi sono d’accordo quasi tutti, dicono i giornali, verdi e “gauche” compresi. In Savoia, a Saint Martin de la Porte, resta da completare il terzo tunnel esplorativo della Lione-Torino, dopo quelli di Modane e La Praz. Sono stati fatti finora 137 chilometri, senza stop. Alla Stampa solo una settimana fa Gerard Leras, a lungo presidente dei Verts, ha spiegato: “Un conto è essere ecologisti, un altro localisti. Non si può sempre dire di no”. Ad Avvenire Pierre Marie Charvoz, sindaco di Saint Jean in Maurienne, annuncia: “Diventerà la capitale del turismo. Voglio la Tav, ma sono pronto a scendere in piazza se lo Stato francese non ci darà i soldi per le infrastrutture collegate”.

La parola chiave è “demarche”: lo Stato francese ha pagato bene lo sgombero e la ricostruzione di territori ed edifici che sorgevano sulla linea ferroviaria; e se qualcuno s’è opposto, non ha fatto notizia. L’attenzione è rivolta ad altre tratte dell’Alta Velocità (Paesi Baschi e Sea), mentre per la Tav a muoversi è solo il cantiere del Tgv Lyon-Turin. Ci si ferma all’osservazione: “Peuple No Tav à Val di Susa samedi 23 janvier 2010”.


Giovanna Boglietti


giovedì 21 gennaio 2010

Femmes du Maroc: il nudo in copertina.


Nadia Larguet, bientôt maman. Nadia Larguet “presto mamma” scandalizza dalla prima pagina di “Femmes du Maroc” i benpensanti di tutto il mondo, arabo e non solo. Nadia Larguet posa nuda, incinta, con una mano sul ventre, “proprio come fece Demi Moore nel ’91 su Vanity Fair” scrive Donatella Bogo sul settimanale Sette (“Il Corriere della Sera”).

La direttrice della rivista Myriam Jebbor si difende dicendo: “Le donne hanno più diritti dal 2003, anno in cui è stato approvato il Codice della Famiglia. Ma c’è ancora molto da fare. Questo era il momento giusto per lanciare un messaggio forte, per far presente che ci sono molte donne che partoriscono senza assistenza e molti bambini che muoiono durante la nascita”.

Non tutti sono d'accordo con lei. Ci sono voci maschili che lamentano: "Al Giornale gongolano. Per questo esportiamo democrazia, per questo combattiamo l’islamismo estremista, affinché ogni donna del mondo possa esporre le sue tette e la sua pancia sul giornale. Paese libero= paese con tette in esposizione, in questo senso l’Italia è un paese liberissimo, a noi le tette nostrane (ovvero esposte sui media italiani) non bastano ed ogni scusa è buona per mettere in esposizione pure quelle dei giornali stranieri".

Al giornale non gongolano, sul sito della rivista chiedono commenti, chiedono un confronto. La verità sta nel mezzo, sta nella dimensione che solo una donna può spiegare e che lega i tanti destini.

Scriveva Alda Merini: "Spazio spazio, io voglio, tanto spazioper dolcissima muovermi ferita: voglio spazio per cantare crescere errare e saltare il fosso della divina sapienza. Spazio datemi spazio ch'io lanci un urlo inumano, quell'urlo di silenzio negli anni che ho toccato con mano".

Giovanna Boglietti

mercoledì 20 gennaio 2010

Quando i veli sono troppo bianchi


In Italia 2 mila spose bambine ogni anno
. E molte sono costrette a rimpatriare

Nozze imposte soprattutto tra indiani e pachistani. «Salvata» una giovane a Novara

«Viviamo con il cervello a metà. Una parte nel Paese della nostra famiglia. Una parte con i nostri amici. Che ci dicono di restare qui, di inserirci in questa società». La vita spezzata delle adolescenti straniere inizia a tredici, quattordici anni. È a quell’età che (secondo i sociologi che hanno intervistato queste ragazze) si vedono i primi segni di conflitto. Fino all’anno prima potevano portare i loro compagni in casa. Poi, diventa proibito. Oppure: non vanno in gita con la classe. E iniziano le liti sui vestiti, il trucco, le magliette troppo corte. Situazioni comuni, a Milano, Roma, Brescia. Le ragazze con il «cervello a metà» crescono su due binari, senza sapere quale seguire. Dicono: «Per noi è impossibile progettare il futuro». Si trovano in mezzo a due forze. E non sanno come metterle in equilibrio. «Poi ogni tanto qualcuna sparisce dalle scuole superiori — racconta Mara Tognetti, docente di Politiche dell’immigrazione all’università di Milano Bicocca— oppure non rientra dalle vacanze. Le famiglie le hanno riportate nel loro Paese, per farle sposare». In un solo anno, nella città inglese di Bradford, sono «scomparse» 200 ragazzine tra i 13 e i 16 anni, figlie di immigrati. In Italia non esistono statistiche dettagliate. L’unica stima è del Centro nazionale di documentazione per l’infanzia, Secondo cui le «spose bambine» nel nostro Paese sarebbero 2 mila all’anno.

MATRIMONI SOMMERSI - In Italia i minorenni non possono sposarsi. Esiste però una deroga. Per «gravi motivi», dai 16 anni in poi il tribunale per i minori può autorizzare le nozze. Il Centro di documentazione per l’infanzia registra da anni questi casi: nel 1994 erano 1.173, poi sono via via diminuiti, fino ai 209 del 2006 e i 156 del 2007 (ultimo dato disponibile). La Campania è la regione in cui ne avvengono di più, 77. Per la maggior parte si tratta di matrimoni tra stranieri, con in testa le comunità di immigrati da Pakistan, India e Marocco.
Questi numeri descrivono però solo l’aspetto legale, che secondo gli esperti è minimo rispetto a tutti i legami imposti all’interno delle famiglie, a volte suggellati con un rito in qualche moschea, più spesso con unioni celebrate nei Paesi d’origine. «Le seconde generazioni delle ragazze sono e saranno una vera emergenza— spiega Mara Tognetti —. Se non si interviene con politiche più incisive, i contrasti tra l’idea di famiglia imposta dai genitori e il modello delle adolescenti diventerà inconciliabile».

CONFLITTI LATENTI - Altri dati definiscono questa situazione di rischio potenziale. Le ragazze immigrate di seconda generazione nel nostro Paese sono circa 175 mila. «Il matrimonio combinato — racconta la ricercatrice — riguarda però solo alcune comunità, quella indiana e quella pakistana più delle altre, in misura minore la marocchina e l’egiziana». Le nozze imposte sono il male estremo. Il pericolo dei prossimi dieci anni rischia di essere la «conflittualità latente», incarnata da ragazze che studiano e si integrano, ma che vivono in famiglie attaccate alle tradizioni. «Molti genitori non hanno un grado di istruzione elevato— racconta Fihan Elbataa, della sezione bresciana dei Giovani musulmani d’Italia — e quindi di fronte a situazioni in cui vedono un pericolo non sanno come reagire. Si chiudono, diventano severi e impongono le regole con l’aggressività. Noi cerchiamo di spingerli al dialogo, a lasciare spazi di libertà».
A Brescia alcuni ragazzi sono scappati, o si sono allontanati da casa per qualche tempo, proprio per sfuggire alle «leggi» dei genitori: «Sono convinta che le famiglie cerchino il bene dei propri figli— conclude Fihan Elbataa—. Le intenzioni sono buone, ma purtroppo rispetto alla loro educazione si trovano in un contesto nuovo, e quindi devono cambiare i loro metodi».

RICERCA DI AUTONOMIA - Venerdì scorso, su segnalazione dell’associazione Donne marocchine in Italia, è stata salvata una ragazza a Novara. Diciassette anni, una figlia di 4 mesi, moglie maltrattata di un «matrimonio combinato». Ora si trova in una comunità di Roma. A denunciare la situazione è stata una vicina di casa. Lei non era riuscita, non sapeva neppure a chi rivolgersi. La ribellione è complicata. E allora, per trovare un equilibrio, le promesse mogli adolescenti cercano uno «spazio di negoziato». È un rimedio estremo, scoperto dalla ricerca che la sociologa Tognetti pubblicherà il prossimo mese. Contiene interviste a ragazze che hanno cercato di trattare sulla loro condanna. Queste sono le loro voci.
Una giovane marocchina che vive aMilano: «Ho accettato la richiesta di mio padre, sposerò un uomo del mio Paese. Ma ho chiesto di poter scegliere tra più di un possibile marito, di vederne almeno tre o quattro». Ragazze che non possono, o non vogliono, scardinare il sistema di regole della famiglia. Ma cercano di ricavare spazi minimali si sopravvivenza. Altro racconto, di un’adolescente egiziana, anche lei studentessa «milanese» : «Hanno scelto l’uomo per me, non mi oppongo. Ma ho chiesto due cose. Prima del matrimonio volevo vederlo. E poi ho ottenuto una garanzia, una specie di "contratto" non scritto: dopo il matrimonio potrò continuare la scuola e poi andare all’università, per laurearmi».

(Il Corriere della Sera)


domenica 10 gennaio 2010

Rosarno: l'offesa ai nasi bianchi.

“Cattivo odore, puzzo tremendo, fetore insopportabile”. Gli inviati dei nostri Tg nel lezzo della miseria hanno l’olfatto fino. Nei loro “reportage” da Rosarno, i protagonisti, le vere vittime, non sono mica i braccianti neri presi a schioppettate, ma i loro stessi nasi bianchi offesi. Fateci caso, quasi tutti gli inviati nelle caverne-dormitorio dei migranti africani esibiscono questo naso arricciato, questo stupore delle loro bocche a culo di gallina: «Che odore terribile!» Ma dai? Sacco e Vanzetti si facevano il bagno con Chanel numero 5?
Le telecamere più burine del mondo setacciano immagini shock per dimostrare ai telespettatori sprofondati nei divani Aiazzone o sul sediolone Liu-Liu della Foppapedretti come si finisce male se non hai il “papier” tricolore e il cervello padano: materassi lerci, padelle con avanzi di cous-cous, masserizie da dannati della terra. Sopraggiunge il Feldmaresciallo Maroni (“Siamo stati fin troppo tolleranti”); i cattivi odori vengono pigiati sulle corriere della polizia di Stato. Bruciate i materassi! Spruzzate “Fresh Air Agrumi”, lasciateci respirare l’afrore nostrano dei “caporali” che pretendevano il pizzo di 5 euro su 20 di paga giornaliera, il ritemprante aroma della mafia locale, fuori la puzza senza passaporto, viva quella POC (Puzza a Origine Controllata).
Ma che vuol dire “negro”? Non è una banale pigmentazione della pelle. “Negro” significa sottocivilizzato, schiavo, scherzo di natura, rifiuto umano. Puzza. Ce lo confermano i nostri Tg nazionali. Ieri, alla televisione, non dicevano altro, non confermavano altro che questo: «i negri puzzano». Erano i Tg di un paese razzista alla luce del sole. Perché il razzismo è immortale, dovrebbero essere le Costituzioni e i Governi a tenerlo a bada. La nostra Costituzione conferma l’uguaglianza all’art.3. Il nostro Governo la sconfessa a ogni dichiarazione di Bossi, di Cota, di Maroni e di Borghezio. Quindici anni di esternazioni violente contro gli immigrati hanno sdoganato il razzismo innato di milioni d’italiani. E’ come se avessero detto loro: “Non dovete più vergognarvi di essere xenofobi, razzisti, intolleranti, la vera feccia dell’umanità. Voi siete brava gente, siete a casa vostra, sono loro, i negri, gli arabi, i clandestini, che vogliono violentarvi le donne, rubarvi il lavoro, pisciarvi sui monumenti!” Quindici anni così, tutte le sere in Tv, goccia a goccia, fino a definirsi il Partito dell’Amore. Il rovesciamento assoluto. Perché il voto giustifica i mezzi. I sondaggi lavano pure il sangue. E i fatti di Rosarno premieranno la Lega.
Anch’io vado a naso. Ma il fetore che sento soffia da Nord e dalle istituzioni che stanno violentando al Costituzione.. Sono quindici anni che lo ripetiamo, isolati, al vento. Attenti. La democrazia deve incorporare la diversità, non escluderla. Non è facile ma è l’unica strada.
Balottelli ha avuto una reazione umana nel ribellarsi ai cori razzisti. I braccianti hanno avuto una reazione umana nel ribellarsi alle fucilate del Ku Klux Klan di Rosarno. Ma che cosa c’è di umano e di giusto nella deportazione di Stato degli schiavi delle campagne calabresi?

sabato 9 gennaio 2010

Belgio. Veli, minareti, crocefissi: non c'è più religione.

Per prima si è mossa la Francia di Nicolas Sarkozy, che dopo tanto discutere ha varato una legge che impedisce di portare il velo a scuola. Un “unicum” in territorio europeo, se si pensa che disposizioni analoghe sono in vigore in due Paesi a maggioranza musulmana, la Tunisia e la Turchia. Poi, è venuta l’ora dell’Italia, dove il connubio immigrazione-scuola si è fatto rovello leghista e troverà applicazione nella decisione del ministro all’Istruzione Mariastella Gelmini di ammettere classi con una percentuale di stranieri non superiore al 30 per cento. Ma, dicevamo, dopo la Francia è subentrata l’Italia: la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo dice “Via ai crocefissi dalle pareti delle scuole italiane”, e la querelle sulla collocazione di Gesù Cristo (appeso o sfrattato, simbolo religioso o culturale?) ha avuto inizio. Segue il secco “no a nuovi minareti” della composta Svizzera.

Adesso tocca al Belgio, dove tiene banco una nuova polemica attorno al velo islamico, che ne vieterebbe l’uso non solo nelle scuole ma nella pubblica amministrazione. Il provvedimento si alimenta dell’alto numero di musulmani oggi presenti in questi settori, e non solo; a Bruxelles interi quartieri, come Molebeek St Jean o Anderlecht, sono abitati soprattutto da immigrati magherebini e nella città il nome più diffuso fra i neonati risulta essere Mohammed.

Scrive la giornalista di Repubblica, Mariagrazia Forcella: “Due diverse proposte di legge riguardanti il velo nelle scuole stanno per approdare al Parlamento belga: una presentata dai liberali, l’altra dal Vlaamse Belang (estrema destra fiamminga). Due partiti nemici. Ma i liberali, che inizialmente si trovavano soli a sostenere questa battaglia contro cattolici, socialisti e verdi, ora vedono le posizioni degli altri partiti avvicinarsi alle loro”.

La deputata liberale Antoinette Spaak racconta alla giornalista che l’eliminazione del velo rappresenta una “opportunità” per le bambine. Ma al momento la legislazione non distingue fra hijab, il velo che lascia il volto scoperto, e nikab, quello che copre interamente il viso e spesso anche gli occhi (e che in Belgio è costato diverse multe, fuori dal periodo riservato al Carnevale per via di un provvedimento che vieta di coprire il volto per irriconoscibilità).

Filip Dewinter sostiene: “Il velo è il simbolo della non volontà di integrarsi. Se queste persone vogliono indossarlo, devono tornare nei loro Paesi”.

Gli risponde Souhila, algerina e dottoranda all’Università di Bruxelles, che a Mariagrazia Forcella dice: “Io sono cresciuta con la parabolica, ho sempre conosciuto la vita in Europa. Voglio imparare e poi tornare nel mio Paese. Finchè potrò indossare il velo, rimarrò. Ma se mi verrà impedito, dovrò tornare a casa, lasciare gli studi. Perché mai potrò abbandonare quella che per me è una scelta fondamentale, religiosa e identitaria”.

L’Europa che sradica i simboli, religiosi e identitari come fa notare Souhila, non sembra fare eccezioni; che si tratti di un crocefisso o del velo. Eppure, stanno veramente lì il valore identitario e la corda tesa dallo scontro fra civiltà?


Giovanna Boglietti

Barbara Spinelli: quale Partito dell'Amore?


"Se la politica italiana fosse un film, questo inizio di 2010 lo intitolerei Le conseguenze dell’amore. Il regime c’è da tempo. Ma ora si sta consolidando e inasprendo alla maniera classica dei totalitarismi: introducendo nella politica la categoria del sentimento per cancellare qualunque normalità democratica, qualunque ordinaria dialettica fra maggioranza e opposizione, fra governo e poteri di controllo e di garanzia. Il Capo pretende di essere amato, anzi adorato e, dopo l’attentato di Piazza Duomo, gioca sui sentimenti dei cittadini per ricattarli: ‘Chi non è con me è contro di me. Chi non mi adora mi odia’". Barbara Spinelli non si è mai sottratta alle regole ferree del dizionario: ha sempre chiamato "regime" il berlusconismo. Ma ora vede un’altra svolta, una cesura estrema, un salto in avanti verso il baratro.

Qual è precisamente questa svolta di regime nel regime? Nella testa di Berlusconi l’attentato di Piazza Duomo ha creato un prima e un dopo. Dopo, cioè oggi, nulla può più essere come prima. Si sente in guerra, anche se combatte da solo. E con il dualismo amore-odio crea una situazione militare: l’immagine del suo volto sfregiato e insanguinato, riproposta continuamente in tv e sui giornali, è per lui l’equivalente dell’attentato alle due Torri per Bush. Stessa valenza, stessa ossessività, stesso scopo ricattatorio. Con la differenza che, dietro l’11 settembre, c’era davvero il terrorismo internazionale. Dietro l’attentato a Berlusconi c’è solo una mente malata e isolata.


Qual è la conseguenza politica? L’attentato al premier ha ancor di più narcotizzato la stampa italiana, che ha rapidamente interiorizzato il ricatto dell’amore e dell’odio. E il Pd dietro. Viene bollata come espressione di odio da neutralizzare, espellere, silenziare qualunque voce di opposizione intransigente. Cioè di opposizione. Tutti quei discorsi sul dovere del Pd di isolare Di Pietro. A leggere certi quotidiani, ci si fa l’idea che il vero guaio dell’Italia degli ultimi 15 anni non sia stato l’ascesa del berlusconismo, ma quella dell’antiberlusconismo. Quanti editoriali intimano ogni giorno all’opposizione di non odiare, cioè in definitiva di non opporsi! Come se l’azione isolata di un imbecille potesse e dovesse condizionare l’opposizione. Un ricatto che si riverbera anche sugli articoli di cronaca.


A che cosa si riferisce? Alla strana indifferenza con cui si raccontano alcune scelte mostruose, eversive della maggioranza che inasprisce il suo regime senza più critiche né opposizione. Penso alle tre o quattro leggi ad personam fabbricate in queste ore nella residenza privata del premier. Penso all’orribile apposizione del segreto di Stato sugli spionaggi illegali scoperti dalla magistratura in un ufficio del Sismi e nell’apparato di sicurezza Telecom. A salvare con gli omissis di Stato gli spioni accusati di avere schedato oppositori, giornalisti e magistrati sono gli stessi che un anno fa creavano il mostro Genchi, dipingendolo come una minaccia per la democrazia, trasformando il suo presunto ‘archivio’ in una centrale eversiva.


E Genchi operava legalmente per procure e tribunali, al contrario delle barbe finte della Telecom e del Sismi. Appunto, ma nella smemoratezza generale, facilitata dalla narcosi della stampa (per non parlare della tv), nessuno ricorda più nulla. Nessuno è chiamato a un minimo di coerenza, né di decenza. I sedicenti cultori della privacy che strillano a ogni legittima intercettazione giudiziaria tentano di controllare addirittura il cervello e i sentimenti del comune cittadino col ricatto dell’‘odio’. Fanno scandalo le intercettazioni legali, mentre lo spionaggio illegale viene coperto dal governo. Così il segreto di Stato diventa un lasciapassare preventivo a chiunque volesse tornare a spiare oppositori, giornalisti e magistrati. 'Fatelo ancora, noi vi copriremo', è il messaggio del regime. 'Le operazioni illegali diventano legali se le facciamo noi': un avvertimento per quel poco che resta di opposizione e informazione libera. E il Pd e i giornali ‘indipendenti’ non dicono una parola, soggiogati dalla sindrome di Stoccolma.


Che dovrebbe fare, in questo quadro, l’opposizione? Vediamo intanto che cosa dobbiamo fare noi con l’opposizione: smettere di chiamarla opposizione. Diciamo ‘quelli che non governano’. Gli daremo la patente di oppositori quando ci diranno chiaramente che cosa intendono fare per contrastare il regime e cominceranno seriamente a farlo. Se è vero che Luciano Violante segnala addirittura al governo le procure da far ispezionare, se Enrico Letta difende il diritto del premier a difendersi 'dai' processi, se altri del Pd presentano disegni di legge per regalare l’immunità-impunità a lui e ai suoi amici, chiamarli oppositori è un favore. Li aspetto al varco: voglio sapere chi sono e cosa fanno.


Ellekappa li chiama "diversamente concordi". Appunto. Non si sono nemmeno accorti dello spartiacque segnato dall’attentato nella testa di Berlusconi, fra il prima e il dopo. Non hanno neppure colto la portata ricattatoria dell’ultimatum del premier perché le nuove leggi ad personam vengano approvate entro febbraio, altrimenti 'le conseguenze politiche non saranno indolori'. Nessuno ha nulla da dire contro questo linguaggio da mafioso ai vertici dello Stato? Perché nessuno fa dieci domande su quella frase agghiacciante? E’ il Partito dell’Amore che si esprime così?


Che dovrebbe fare l’opposizione per essere tale? Rendersi graniticamente inaccessibile a qualsiasi compromesso sulle leggi ad personam. Evitare di reagire di volta in volta sui piccoli dettagli, ma alzare lo sguardo al panorama d’insieme e dire chiaro e forte che siamo di fronte a una nuova svolta, a un inasprimento del regime. E respingere pubblicamente, una volta per tutte, questo discorso osceno sull’amore-odio.


Tabucchi invita le opposizioni a coinvolgere l’Europa con una denuncia che chiami in causa le istituzioni comunitarie. Sull’Europa non mi farei soverchie illusioni: basta ricordare i baci e abbracci a Berlusconi negli ultimi vertici del Ppe. Io comincerei a dire che con questo tipo di governo non ci si siede a nessun tavolo, non si partecipa ad alcuna ’convenzione’, non si dialoga e non si collabora a cambiare nemmeno una virgola della Costituzione. Oddio, se vogliono ridurre i deputati da 630 a 500 o ritoccare i regolamenti, facciano pure: ma non è questo che interessa a Berlusconi. Come si fa a negoziare sulla seconda parte della Costituzione con chi, vedi Brunetta, disprezza anche la prima, cioè i princìpi fondamentali della nostra democrazia?

Anziché dialogare con Berlusconi, quelli del Pd farebbero meglio a guardare a Fini, provando a fare finalmente politica e lavorando sulle divisioni nella destra, invece di inseguire, prigionieri stregati e consenzienti, il pifferaio magico. Spesso in questi mesi Fini s’è mostrato molto più avanti del Pd, che l’ha lasciato solo e costretto ad arretrare.


Perché, con la maggioranza che ha, il Cavaliere cerca il dialogo col Pd? Anzitutto per un’irrefrenabile pulsione totalitaria: lui vorrebbe parlare da solo a nome di tutto il popolo italiano, ecco perché l’opposizione dovrebbe dirgli chiaramente che più della metà degli italiani non ci sta. E poi c’è una necessità spicciola: senza i due terzi del Parlamento, le controriforme costituzionali dovrebbero passare dalle forche caudine del referendum confermativo: e l’impunità delle alte cariche o della casta, per non parlare del lodo ad vitam di cui parlano i giornali, non hanno alcuna speranza di passare. Dunque è proprio sulla difesa della Costituzione e sul no a qualunque immunità che il Pd dovrebbe parlar chiaro. Invece è proprio lì che sta cedendo.


L’ha soddisfatta il discorso di Napolitano a Capodanno? Mi ha impressionato più per quel che non ha detto, che per quel che ha detto. Mi aspettavo che, onorando i servitori dello Stato che rischiano la vita, non citasse solo i soldati in missione, ma anche i magistrati che corrono gli stessi rischi anche a causa del clima, questo sì di odio, seminato dalla maggioranza. Invece s’è dimenticato dei magistrati persino quando ha elencato i poteri dello Stato, come se quello giudiziario non esistesse più.


Perché, secondo lei, tutte queste dimenticanze? È una lunga storia...Chi è stato comunista a quei livelli non ha mai interiorizzato a sufficienza i valori della legalità, della giustizia, dei diritti umani. Quando poi i comunisti italiani, caduto il Muro, hanno cambiato nome, sono diventati socialisti, e all’italiana: cioè perlopiù craxiani. Mentre la cultura socialista europea ha sempre difeso la legalità e la giustizia, il socialismo italiano degli anni ’80 e ‘90 era quello che purtroppo conosciamo. E chi, da comunista, è diventato craxiano oggi non può avvertire fino in fondo la violenza di quanto sta facendo il regime.


Ora si apprestano a celebrare il decennale di Craxi. Mi auguro che il presidente della Repubblica non si abbandoni a festeggiamenti eccessivi. E non ceda alla tentazione di associarsi a questa deriva generale di revisionismo e di obnubilazione della realtà storica sulla figura di Craxi. Anche perché la riabilitazione di Craxi non è fine a se stessa: serve a svuotare politicamente e mediaticamente i processi a Berlusconi e a tutti i pezzi di classe dirigente compromessi con il malaffare. Riabilitano un defunto per riabilitare i vivi. Cioè se stessi.
(L'antefatto, 8 gennaio 2009)

giovedì 7 gennaio 2010

Le vergini giurate d'Albania


“Kanun” e “burnesh” sono due modi per dire donna, in albanese. O, meglio, sono parole che tratteggiano una condizione tutta femminile, in un Paese che preme per entrare nell’Unione Europea ma che ancora si aggrappa a tradizioni incompatibili, tradizioni per le quali la donna continua a non avere dignità di esistere.

In un reportage girato a Tirana dalla giornalista Stella Pende emergono le due identità rosa di un Paese “bifronte”. Da un lato storie come quella di Gerzim, moglie e madre di maschi che non conoscono la luce del Sole. Murati vivi, perché, se uscissero, verrebbero subito uccisi. È la vendetta di un clan rivale: il marito di Gerzim ha ucciso un uomo di quel clan, trafficante di ragazze, che voleva sposare sua sorella solo per rivenderla.


“Siamo andati dalla polizia, abbiamo supplicato quell’uomo di lasciarla. Invano” dice Gerzim alla giornalista “Finché una notte ha cercato di rapirla. Così mio marito è diventato un assassino”. Il marito di Gerzim ha scontato la pena, ma secondo il “kanun” la libertà vale il suo sangue: chi uccide sarà ucciso per vendetta dalla famiglia “offesa”. La stessa sorte tocca ai suoi discendenti maschi; così solo Gerzim può lavorare per la famiglia, portare a casa i viveri: lei è donna, la sua vita vale troppo poco per ripagare di un omicidio.


Tuttavia, è su di lei che pesa quel codice d’onore; come pesano su tante altre femmine quelle prerogative ereditate dai maschi nelle relazioni di coppia. Suona impossibile; ebbene, se la polizia non indaga davvero sulle violenze domestiche e se i giudici si fanno corrompere, sono donne come loro che diventano, per loro, avvocati e inquirenti. Sono le rappresentanti dell’Associazione della donne, guidata dalle critiche letterarie Savim Arbanà e Fabiola Ergo.


Stella Pende raccoglie la testimonianza di Savim Arbanà, “scrittrice dai capelli rossi come la mantella di un cardinale”: “Ormai siamo un network di donne invincibili: associazioni, club e volontarie. Dopo 50 anni di orrore sotto il comunismo, abbiamo scelto di essere liberi. La libertà ha in questo paese ha un prezzo alto: la violenza, l’analfabetismo, la fame. L’Albania di oggi non è ancora quella che sogniamo per domani, ma permetteteci di conquistarci i nostri sogni”.


Ci sono donne che, per vivere libere in Albania, hanno rinunciato al loro genere e si sono fatte uomo. Diventare l’uomo significa diventare “burnesh”, cioè vergini giurate. Scrive Pende: “Lo vuole la tradizione incantata delle montagne fra il Kosovo e l’Albania che chiede a certe donne castità infinita per conquistarsi l’onore di essere maschio. Di vestirsi, di armarsi, di combattere, ma anche di fumare e di bere alcol, lussi proibiti alle donne”.


C’è però l’altra faccia dell’Albania, quella che sta conquistando a morsi il sogno di cui parla Savim Arbanà. Parla la giornalista e conduttrice della trasmissione Shqip, Rudina Xhunga: “L’Italia è il nostro specchio, il desiderio e il modello. Le donne sono l’Albania. Ma le nostre donne politiche fanno ancora i ventriloqui dei maschi di potere. Quando parleranno come farebbero con i loro figli o con gli amanti, l’Albania avrà vinto la sua scommessa”.


Sulle donne scommette il sindaco di Tirana, il pittore Edi Rama che a Stella Pende aggiunge: “Le donne sono esseri del fare e non del dire. Quando una delle nostre diventerà primo ministro, ce l’avremo fatta”.


Giovanna Boglietti





martedì 5 gennaio 2010

L'angelo della notte


Distribuisce preservativi e sorrisi, facendo la spola fino a notte fonda fra quartieri malfamati e locali lussuosi, le due facce di una Cartagena de Indias che ogni settimana è presa d'assalto da turisti in cerca di divertimento estremo a basso costo. Fra strette di mano alternate a consigli sparati a muso duro alle prostitute che osano sdegnare il cappuccio salvavita, adocchia le bambine, anime fragili nascoste maldestramente dietro maschere di trucco e lustrini, che mal celano la tenera età. E con loro si trasforma: è la dolcezza carica di rispetto dell'educatrice che tenta di offrire ai minori di questa spietata quanto bella città colombiana una scelta, il biglietto per una nuova vita. Si chiama Leyla, ha trent'anni e tanti chilometri nelle gambe. Suo figlio, di dieci, vive con i nonni a Baranquilla, cittadina a un'ora di pullman verso nord, risalendo la costa caraibica. "Sono una mamma assente, lo so, vedo mio figlio solo il fine settimana, ma sento che un giorno capirà".

Dal lunedì al venerdì, ogni notte, Leyla è l'angelo della notte. Accompagnata dal suo fedele collega Donaldo, psicologo mite ed equilibrato, cammina per ore "fino a che il fisico regge" per seminare tra la gente nei vicoli zeppi di vite dimenticate da dio, il rispetto per i minori. "Che vengano risparmiati, almeno loro!", sussurra, sguardo al cielo. Lo sfruttamento sessuale minorile in questo angolo di mondo è oramai tradizione e a peggiorarlo è la sete di soldi facili portati dal business dei turisti in cerca di trasgressione. Se la bella Cartagena, a occhi distratti, sembra ben altro rispetto al resto della Colombia, dov'è guerra aperta da oltre quarant'anni fra gruppi rivoluzionari e potere costituito, a chi ha cuore e pazienza il quadro reale si mostra sotto altre tinte. La bellezza dei luoghi e il cordone di sicurezza creato intorno alla cittadina dalle grandi mura coloniali tengono lontani i kalashnikov della guerriglia, ma il conflitto si manifesta sotto altre sembianze: casupole stracolme di sfollati, morti ammazzati per un pezzo di pane, delinquenza, traffici illeciti e bande criminali che si contendono fette di territorio. In mezzo a tutto questo, il business della prostituzione, e poco importa se a esserne coinvolte sono bambine dai dieci anni in su.


"Il dolore e la violenza che ognuna di queste persone ha dovuto vedere e sopportare hanno corrotto le loro anime. Sono malati di morte", spiega fredda Leyla. Che fare, dunque, per salvare giovani vite da destini segnati? Cercare di gettare germogli di speranza nel letame, battere metro per metro gli slums più angusti e parlare con i più vulnerabili, giorno dopo giorno, per intaccare paure, ignoranza, corruzione, omertà, distintivi di una società per la quale violare una bambina è la norma. "Colpa sua, va in giro randagia. Colpa dei suoi, non la seguono. Queste le frasi più ricorrenti - riprende - in un mondo dove le ragazzine sfruttate non sono vittime, ma colpevoli più di chi ne abusa". Eccola Cartagena, orgoglio del turismo colombiano, gioiello architettonico corroso da una cultura machista incattivita da secoli di schiavismo (di cui ne era la porta di entrata), e incancrenita da decenni di guerra.


Il compito degli angeli della notte è duro e solitario. Giovani laureati che hanno scelto di sacrificare le proprie vite per un altro mondo possibile. Leyla, per poter continuare a tendere una mano a "tutte quelle piccole anime perse che ancora possono essere salvate", non solo ha rinunciato a vedere suo figlio, ma non ha una vita privata. "E' una condanna - sorride - ogni volta che scelgo di fidarmi di un uomo, prima o poi lo incontro nei locali erotici dove distribuisco preservativi. Qui, chi non cade in tentazione è perla rara". Ma lei non si abbatte. "Il mio scopo è offrire a queste future donne una possibilità". Una volta individuata fra le luci della notte, Leyla si avvicina alla bambina stretta in abitini sexy, la guarda con occhi abbaglianti e le parla per interminabili minuti. Solitamente esili, nere, occhi grandi, con loro sfodera istinto materno e pacata chiarezza. Ormai la conoscono, ma per vederle apparire al centro Renacer, il luogo dove vengono accolte, aiutate, istruite e accompagnate per mano verso una nuova vita, occorre tempo, pazienza. Quella ragazza piccola e riccia, con i capelli ribelli stretti in foulard colorati e appesa all'immancabile tracolla zeppa di condom è ormai punto di riferimento nella notte cartagenera. È la porta d'accesso, l'alternativa. Ma il coraggio di cambiare è diffidente e arriva raramente. "Finora sono una trentina gli ospiti del nostro dormitorio, quelli inseriti nei nostri corsi, un centinaio - spiega - ma questo losco affare coinvolge migliaia di vite, dobbiamo arricciarci le maniche e lavorare".


Con un pelo sullo stomaco inestirpabile, la donna si è fatta amica dei gestori dei night, dei capi gang degli slums e di qualche magnaccia. "Pur di arrivare alle bambine, questo e altro", ammette serena. Leyla offre strade concrete, non solo parole. Renacer, coordinata dalle Ong italiane Cisp e Coopi, ha messo a punto un programma che sta dando risultati straordinari, quindi poco importa se per strappare dalla strada anche un solo minore occorre essere gentili con il "bastardo di turno". Prevenzione, lotta e recupero dunque, con una priorità: garantire la libertà individuale. "Libertà dalla rabbia, dalla paura, dalla solitudine, dalla povertà - precisa Leya - La libertà di dire no all'assuefazione alla violenza, che piega vittime e carnefici".


Stella Spinelli per Peace Reporter

Fotografia: Manina G & B. Sas.

Fotografa per denuncia.


La sua macchina fotografica è un'arma letale per un regime oscuro e chiuso al mondo che nulla vuol far sapere delle miserie del suo popolo. Umida Akhmedova, 54 anni, nata e cresciuta nell'ex repubblica socialista sovietica dell'Uzbekistan, è braccata come una terrorista, ricercata dalla polizia del suo paese. Rischia sei mesi di carcere oppure, molto peggio, fino a due anni di un non meglio definito "lavoro rieducativo". E' accusata di aver offeso l'immagine del popolo uzbeko avendo pubblicato all'estero un reportage fotografico tra i poverissimi contadini della valle di Fergana, tra i vecchi malcurati di Samarcanda, tra le altre strazianti miserie di un paese dimenticato che un tempo fu la culla della civiltà persiana e che adesso sembra cristallizzato in un medioevo senza futuro.

La disavventura di Umida Akhmedova è cominciata un paio di mesi fa: convocazioni della polizia, interrogatori sempre più assurdi ed estenuanti, poi l'incriminazione e ieri la sua prudente decisione di allontanarsi da casa e far perdere le sue tracce. Ma l'Uzbekistan è un paese lontano da tutto, la vicenda della fotografa perseguitata non fa clamore sui media occidentali. Se ne accenna in qualche blog russo, qualche associazione per la difesa dei diritti umani organizza improbabili petizioni al governo uzbeko ma della sorte di Umida si sa poco.

Il libro incriminato è uscito un anno fa insieme a una collezione di filmati e documentari curati dall'ambasciata svizzera in Uzbekistan. Si chiama "Donne e uomini dall'alba al tramonto" e segue lo schema classico di un'opera etnografica cercando di documentare usi, costumi e, inevitabilmente, condizioni economiche e culturali di un popolo. Ci sono immagini di nozze di campagna, di funerali di paese, di giovanissime prostitute per le strade dell'unica città, la capitale Taskhent. Immagini inoffensive, perfino poetiche che però hanno fatto scattare l'indignazione dell'Agenzia per la Stampa e l'Informazione Uzbeka, organismo ereditato dalla cultura sovietica e non troppo aperto verso la libera espressione. La denuncia dell'autorevole organismo ha fatto scattare le indagini e poi la persecuzione.


La Akhmedova, che da qualche anno ha acquisito una certa notorietà in Russia e anche una consacrazione internazionale dopo una mostra a Copenaghen nel 2006, ha fatto in tempo a raccontare per mail le fasi dei suoi primi interrogatori condotti dal capitano Nodir Akhnadzhanov, giudice istruttore del nucleo di polizia distrettuale di Taskent. "Mi ha detto che insultavo il mio popolo - ha raccontato - ed è rimasto molto perplesso davanti al termine etnografia. Probabilmente non sa nemmeno che cos'è. Gli ho detto che mi limito a fotografare le usanze, i costumi popolari, che non c'è una sola foto preparata prima. Ma continuava a dire che io calunniavo la mia gente". In più la polizia uzbeka ha aggiunto sul conto della signora vecchi arretrati da pagare. A cominciare dalla sua partecipazione a due documentari, anche questi finiti in Occidente e non graditi dal regime: "Uomini e donne nei costumi e nei riti" e "L'onere della verginità".

Il governo uzbeko non ama che fuori dai suoi confini si sappia come vive la gente. Il suo presidente Islom Karimov, vecchio esponente dell'era sovietica che accettò di malavoglia la dissoluzione dell'Urss, si è trasformato per sua stessa ammissione in una sorta di satrapo orientale. Perfetto per una terra che le satrapie le inventò oltre duemila anni fa. Eccentrico e accentratore, usa ancora i metodi sovietici come la collettivizzazione delle terre, per gestire un regime in chiave sempre più personalistica. Famoso il suo serraglio personale e gli arredamenti a forma di pezzi della scacchiera scolpiti in marmo pregiato in onore alla sua passione. Governa in assoluto isolamento dopo aver strappato la neutralità e perfino la amicizia di Russia e Stati Uniti usando il pugno di ferro contro ogni forma di estremismo islamico e concedendo all'uno e all'altro basi militari e strutture di supporto logistico.

Il mondo esterno che poco sa del suo paese, ignora le rare voci di dissenso che raccontano di un sistema sanitario inesistente e di un'istruzione pubblica inadeguata e antiquata. E di quello che accade nello stato più popoloso dell'Asia centrale, 25 milioni di abitanti, viene solo a sapere da qualche coraggioso reporter come la Akhmedova, adesso ricercata come una latitante dalle stesse truppe speciali impegnate nella caccia ai terroristi.


(La Repubblica.it)



Attualmente oltre 700 persone di diversi Paesi hanno firmato la petizione online “Protest and Anger” (Protesta e Rabbia) promossa dalla Coalizione Internazionale di Giornalisti “Caucasia”.