venerdì 23 luglio 2010

Honduras: nuove minacce alla leader del Movimiento de Mujeres por la Paz

“Ahorita te caemos, vieja ignorante!!!”. Adesso ti facciamo fuori, vecchia stupida. La notizia dell’ultima minaccia a Gladys Lanza, leader del Movimiento de Mujeres por la Paz dell’Honduras, circola su siti e testate locali. Niente di così inquietante, per il resto del mondo; un po’ perché l’attivista e sindacalista da anni (e molto negli ultimi mesi) è nel mirino di anonimi oppositori o un po’ perché la sua campagna in favore dei diritti umani, e delle donne soprattutto, torna a pungere i progetti degli Stati Uniti?

La minaccia sta in una e-mail spedita il 17 luglio, poco prima delle undici di sera. Una e-mail piena di insulti e scritta in un linguaggio crudo, che accusa Gladys Lanza di rubare soldi da un’altra associazione non governativa e di aver mandato al massacro la gente nel corso delle guerriglie aperte dal Partido comunista de Padilla Fush.


A queste si aggiungerebbe un’altra colpa: la critica mediatica alla ripresa della militarizzazione dell’Honduras e dell’America latina. L’ultima solo quattro ore prima dell’invio della mail d’avvertimento, al programma radiofonico “Voices Against Forgetting”, sponsorizzato dal Cofadeh, Comité de Familiares de Detenidos Desaparecidos en Honduras.


Le minacce a Lanza, si legge nella lettera-resoconto di FrontLine (per la protezione dei difensori dei diritti umani) che invita gli internauti a diffondere la notizia, sono iniziate a seguito della lettera inviata dall’attivista al segretario di Stato americano Hillary Clinton, per chiedere di “rendere note le informazioni che riguardavano la violazione dei diritti umani in Honduras negli anni Ottanta, in particolare quelle su Billy Joya Amendola” (un agente della CIA che, in quegli anni, eseguì uccisioni e rapimenti degli oppositori al regime golpista e il cui nome rientra fra i ministri del neo presidente Roberto Micheletti). Proprio una foto di Amendola è stata inviata nella mail a Gladys Lanza in allegato con altre immagini; tra queste, quella di un funerale.


“L’associazione è nata proprio nel 1984 all’epoca della repressione feroce, quando l’Honduras era una piattaforma militare degli “yankee” contro le forze di sinistra del Salvador e del Nicaragua. In questo contesto, il Movimento ha saputo dare alle donne l’identità di sapersi difendere, di lottare per i loro diritti come persone e come esseri umani, per poi identificare la donna degna, la donna coraggiosa, la donna esigente come una donna “chona” (chona è un diminutivo del nome della fondatrice Visitación Padilla)”, racconta Gladys Lanza in una intervista alla giornalista Ida Garberi.


Aggiunge che "dopo il golpe di stato, il Movimento si é integrato al Fronte Nazionale di Resistenza Popolare e ha visto il suo lavoro di denuncia moltiplicarsi, infatti oltre alle infamie delle violenze domestiche e contro le donne, adesso gli abusi sono aumentati da parte delle forze dell’ordine e tutti rimangono impuniti".


Appena il 14 luglio scorso, le donne di Lanza hanno contestato l’incremento della presenza militare statunitense nel paese e l’istallazione di due nuove basi nei Caraibi. In aprile di quest’anno infatti Washington e Tegucigalpa hanno inaugurato una base nel dipartimento di Gracias a Dios, al confine con il Nicaragua, nella quale il governo statunitense ha investito due milioni di dollari. L’istituzione è coordinata dalla forza navale di Honduras, ma è sotto il controllo del Comando sud dell’esercito statunitense. Un'altra base simile sarà costruita sull’isola della Guanaja, sempre nei Caraibi honduregni.


Riporta il Granma Internacional di Cuba: “Sono ovvie le intenzioni di Washington di continuare ad estendere il proprio raggio di azione e dimostrare dal nostro territorio la sua egemonia per eseguire una guerra che le persone non vogliono”, ha avvertito il Movimento di Donne per la Pace Visitación Padilla. Secondo un comunicato dell’organizzazione, il colpo di Stato dello scorso anno è stato parte della strategia yankee per aprire il cammino al Pentagono e istallare nuove basi belliche nel paese.


Come per Cuba, Gladys Lanza sostiene: “Siamo fedeli all’insegnamento di Fidel Castro, che cinquant’anni anni fa ha detto che ci hanno sposato con la bugia e ci hanno obbligato a vivere con lei”.


Dal 24 luglio 2009, dopo attacchi alla sua persona (come la casa distrutta o il carcere per lei altri sindacalisti) e ai danni delle sue collaboratrici (minacce, telefonate, pedinamenti, arresti ingiustificati), la Commissione della piattaforma dei diritti umani ha riconosciuto la necessità di offrire a Gladys Lanza protezione. Ma niente è stato fatto, finora.



Giovanna Boglietti

giovedì 22 luglio 2010

Il premio Nobel a Genova per la Settimana dei Diritti parla del suo Paese, ma attacca tutto il mondo sulla condizione femminile. Le donne sono discriminate praticamente ovunque

Shrin Ebadi: "La democrazia in Iran ci sarà, ma non si sa ancora quando e a che prezzo"

In Iran una donna vale la metà di un uomo, eppure il 65% degli iscritti alle università è costituito da ragazze. È il paradosso di un Paese dove le adultere sono lapidate, ma dove il diritto di voto fu esteso alle donne nel 1960, prima che in Svizzera, e dove ancora oggi, sotto il regime ultraconservatore di Mahmud Ahmadinejad, il gentil sesso conta un ministro della salute e 15 deputate su 290.

Nel 2003 Shirin Ebadi è stata la prima donna musulmana, nonché iraniana, ad aver ricevuto il premio Nobel per la Pace. Il 21 luglio di quest'anno è stata presente alla manifestazione 'Genova Città dei Diritti
', durante la quale il sindaco del capoluogo ligure Marta Vincenzi le ha conferito la cittadinanza onoraria. In occasione di questa giornata è stata dedicata una piazza alle donne di Teheran e si è tenuto un incontro pubblico a palazzo Tursi, dove Shirin Ebadi è stata intervistata da Barbara Schiavulli, Ilaria Cavo e Jennifer Clark.

In Iran le donne di una certa età ricordano ancora oggi le libertà di cui godevano prima del regime khomeinista. “Dopo la rivoluzione del 1979 – racconta il Nobel – le leggi non sono state più in linea con la posizione culturale avanzata delle iraniane. In caso di risarcimento la vita di una donna vale il 50% rispetto a quella di un uomo, e così pure la sua testimonianza in tribunale. Per fare qualsiasi lavoro o un viaggio occorre il permesso del marito, che può avere fino a quattro mogli e ripudiarle senza motivo, mentre per una donna ottenere il divorzio è praticamente impossibile”.

Secondo Shirin Ebadi il Corano, correttamente interpretato, non è inconciliabile con la libertà, la pace e il rispetto dei diritti umani. E ricorda che le discriminazioni contro le donne avvengono in tutto il mondo: “In Somalia e in Sudan si pratica la mutilazione genitale anche in famiglie di religione cristiana. In India molte donne si suicidano perché non hanno la dote per sposarsi, mentre in Cina, nonostante il governo vieti l'ecografia per sapere il sesso del nascituro, si praticano aborti selettivi delle femmine. Per non parlare dell'Afghanistan, dove nonostante le quote rosa previste dalla nuova Costituzione non è cambiato nulla e le scuole femminili vengono incendiate. La radice è in una cultura patriarcale che non accetta l'uguaglianza tra le persone, e in cui gli uomini pensano di essere padroni delle donne. Anche in Europa sono le ultime a beneficiare della democrazia, quelle ministro o con incarichi politici sono poche.
Quando mai, in Italia, c'è stato un presidente della Repubblica o del Consiglio donna?”.

Per un futuro diverso in Iran, Shirin Ebadi nutre fiducia nella sua gente: “La cultura per cambiare le cose c'è, ma il regime non ascolta. Il movimento per l'uguaglianza è molto forte, ha sede nelle case di chi ci crede. La democrazia ci sarà, ma non si sa ancora quando e a che prezzo. Su questo influiscono molti fattori, come il rapporto coi Paesi confinanti e con gli Stati Uniti. Mi aspetto la solidarietà dai popoli, non dai governi”. Anche Internet ha la sua importanza: “Ha aiutato gli iraniani ad aggirare la censura, e tutto quello che accade in Iran, cinque minuti dopo, si vede sul computer”.

Il Nobel critica le ultime sanzioni economiche firmate dal presidente Obama: “Non sono d'accordo, perché sono a beneficio del loro Paese, mentre per gli iraniani è peggio: il regime, con la scusa della sicurezza, aumenta l'oppressione e il nazionalismo del popolo che si sente attaccato. Le sanzioni approvate nella quarta risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu, invece, riguardano le armi e colpiscono i militari, non la gente”.

Riguardo all'Iran, si parla molto di nucleare e poco di diritti umani. Shirin Ebadi lancia una provocazione: “Ogni volta che sentiamo i notiziari ci fanno vedere la faccia di Ahmadinejad, ma in Iran vivono 70 milioni di persone. In Italia Berlusconi rappresenta forse tutta la comunità? Un presidente e qualche ministro non costituiscono la civiltà di un Paese”.



(Nicola Ganci, mixamag.it)

lunedì 19 luglio 2010

Scomparsa la vedova di Aldo Moro

E' morta Eleonora Moro, la vedova di Aldo Moro, lo statista democristiano ucciso dalle Brigate rosse.
Aveva quasi 95 anni. I funerali si svolgeranno oggi pomeriggio Torrita Tiberina, il paese dove è sepolto l'ex leader democristiano. Sarà sepolta accanto al marito. La donna è mancata nella sua abitazione romana, chiudendo una storia poco conosciuta ma profondamente intensa tra i due.

Dopo l'agguato che provocò l'uccisione degli uomini della scorta il 16 marzo 1978, la signora Moro, riservata e decisa, per salvare la vita del marito cominciò a bussare a tutte le porte, senza mai arrendersi.

La sua composta fermezza convinse perfino il pontefice Paolo VI, che scrisse una lettera toccante "agli uomini delle Brigate rosse". Uno spiraglio di speranza la signora Moro credette di trovarlo anche nella posizione del leader socialista Bettino Craxi, che voleva percorrere una via della trattativa.

Quando però il 9 maggio del 1978, dopo 55 giorni di prigionia, Aldo Moro venne trovato morto in via Caetani, la vedova iniziò una dura protesta contro i sostenitori della "linea della fermezza" nelle trattative con i terroristi, in particolare il segretario della Dc Benigno Zaccagnini, l'allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, e il ministro dell'Interno, Francesco Cossiga. Per protesta partecipò ai funerali degli uomini della scorta, trucidati nel blitz delle Brigate rosse in via Fani, ma rifiutò quelli di Stato per il marito.

Eleonora Chiavarelli aveva sposato lo statista nel 1945 e ha avuto con lui quattro figli: Maria Fida, Agnese, Anna e Giovanni. A lei il presidente della Democrazia cristiana aveva indirizzato alcune delle 86 lettere inviate dal carcere delle Brigate rosse. In una scriveva: "Ti abbraccio forte, Noretta mia, morirei felice se avessi il segno della vostra presenza, sono certo che esiste, ma come sarebbe bello vederla". Le Brigate rosse non hanno però mai consegnato questa lettera, ritrovata solo anni dopo che Moro era stato ucciso.

Banlieue? Un sobborgo tranquillo


Angélique, nata il 31 dicembre 1991, è la più piccola di quattro figli. Genitori portoghesi, è una delle ragazze delle banlieues di Athis Mons, vasta area periferica di Parigi che comprende tre cité che in questi anni hanno accolto un numero sempre maggiore di immigrati, poco integrati e spesso nullatenenti, e che pullulano di criminalità più o meno organizzata. Teatri di vere guerriglie fra bande e police, come è accaduto di recente addirittura a Grenoble.


Angélique parla al quotidiano Libération, che sul suo sito ha organizzato un reportage dalla fine infografica intitolato “Les yeux dans la banlieue”, occhi puntati sulla periferia. Angélique dice di non essere scontenta della sua nazionalità francese, ma sottolinea categorica che le sue radici restano quelle portoghesi. Vive nella periferia parigina, “se si chiama banlieue, allora chiamiamola banlieue”. La sua passione è il calcio e la squadra in cui gioca con le sue amiche, copines. Alla domanda spinosa sull’esistenza delle “racaille” taglia corto: “Racaille non si sa cosa voglia dire. Non esiste nemmeno nel vocabolario. Vorrei cambiare presidente”. Non stupisce, dal momento che, anni fa, è stato lo stesso Sarkozy, allora ministro degli Interni, a coniare il termine “racaille”, una metafora per alludere ai giovani in rivolta nelle periferie metropolitane. Racaille come “feccia di dannati” ricalca lo slang di strada e corrisponde a “caillera”.


Angélique vede una Francia che si dice laica ma che non ammette immigrati, anche chi come lei vorrebbe specializzarsi all’università con un master e trovare un lavoro e un marito.


Ramalta, 15 settembre 1991, lavora in una scuola materna. Il calcio è la grande distrazione della sua cité. Non sa definire cosa sia la Francia: “è nera, è araba, è il senza colore”. Anche se vive in Francia, lei porta dentro le tradizioni e la cultura d’origine delle isole Comore. Ha due paesi, sa di essere francese ma il cuore è altrove. Non si vede sposata in futuro, ma con quattro bambini sicuramente. E con un buon lavoro.


Il calcio è tutto il mondo di Tarah, classe 1993. Risponde convinta: “Racaille, gente da galera che passa la giornata a disturbare gli altri, invece di lavorare e fa cose cattive”. Tarah vive nella banlieue della capitale, “un posto tranquillo, pieno di vecchi e cani, dove passo il tempo a rincorrere la palla. Non vado a scuola perché è dura, non lavoro e penso solo a uscire, uscire. Mia madre si occupa di me, mio padre fa la spola fra Haiti e la Francia, per i soldi ci penserò, non ho molto da chiedere, prendo quel che i miei mi danno. Andrò negli Stati Uniti da amici, in Francia non ci resterò, è morta”.


Angélique, Tarah e Ramalta sono le tre “filles de cité” protagoniste di un web-documentario girato da Djoudi Lamamra, da 19 anni responsabile del Football Club d’Athis-Mons, per parlare di giovani calciatori (maschi e femmine) delle banlieues non solo come disadattati ma come semplici sportivi, pieni di vitalità e capaci di sorridere. Il documentario spicca tra le notizie recenti del sito del Comune di Athis-Mons e s’intitola proprio “Les yeux dans la banlieue”.


Eppure molti giornali raccontano di ragazze vittime e prodotti delle periferie degradate. Nel febbraio di quest'anno, nella piccola Grenoble - mesi prima delle ultime rivolte - tre minorenni chiedevano 2mila euro a un coetaneo in cambio di foto compromettenti, unendo al ricatto botte e torture (leggi l'articolo).



Da tempo l’associazione “Ni putes, ni sousmises” (Né puttane, né sottomesse), presieduta da Fadela Amara (vai al sito e al libro), combatte la discriminazione di genere. Soprattutto l’abuso di potere nelle periferie:

La dérive des banlieues a commencé il y a une quinzaine d’années, avec le chômage de masse qui a touché de plein fouet les immigrés. Nombre de pères se sont retrouvés sans emploi. Ces pères, qui arbitraient les conflits entre frères et soeurs, et donnaient aussi les règles de vie de la communauté, ont été alors ébranlés dans leur position et dépossédés de leur autorité. Toutes leurs prérogatives sont, de fait, passées aux fils aînés. Les fils ont eu la responsabilité d’inculquer les valeurs familiales aux filles. Leur mission était claire : protéger la soeur des prédateurs, la préserver vierge jusqu’au marriage. Peu à peu, la vigilance des frères a tourné à l’oppression.


Divieto di uscire. Divieto di studiare. Matrimoni forzati. Controlli estesi. Nel vandalismo, le donne devono difendere la loro libertà. Questo ha scritto nel 2008 Renata Caragliano su Repubblica.it:


Nei quartieri periferici, già così segnati da una cultura patriarcale e monoreddito, questo comporta una perdita di autorità dei capifamiglia che vengono sostituiti dai figli maschi maggiori. I giovani hanno un solo valore, il denaro, e un solo modo di esistere, il rapporto di forza, la violenza. L' emarginazione e la mancanza di ruoli sociali fanno il resto alimentando solo rancore nei confronti di tutti, all' interno del quartiere e al di fuori. "Questi giovani non nascono lupi, lo diventano. La delinquenza non è inscritta nei geni, ma trae profitto dalla povertà e dalla sofferenza delle persone", scrive l' autrice che sembra mettere in guardia da pericoli che non investono solo le comunità straniere. "Né puttane né sottomesse" pubblicato in Francia ha venduto oltre 50 mila copie ed è stato tradotto dalla casa editrice indipendente napoletana NonSoloParole. L' autrice ha presentato le linee portanti del progetto Espoir banlieue (Speranza per la periferia) per la "de-ghettizzazione" delle banlieues.


Era un anno fa. L’attività dell’associazione di Fadela Amara continua. E così la tensione fuori e dentro le periferie.


Giovanna Boglietti




(foto di Amandine Petit)

mercoledì 14 luglio 2010

Se l'ostetrica è un uomo.

Allattare o fasciare? “Io per prima cosa darei un seno, lo avvolgerei e proverei ad allattare dall’altra parte, nel caso volessi allattare”. La piccola esitazione non delude Nadine Höfling. Nadine ascolta Unger attentamente. Unger – 43 anni – è arrivato a casa sua per la terza volta, da quando lei è diventata madre. Adesso le sta mostrando come lavare Lilly – neonata di dieci giorni. E si raccomanda di ungere la pelle squamosa della bambina. “La pelle si rigenera continuamente, dura dalle due alle tre settimane”. Ora che il taglio del parto cesareo s’è rimarginato, Unger è fiducioso e risponde alle domande sull’allattamento e sulle flatulenze della bambina, prima di lasciare la giovane mamma e tornare dalla sua famiglia. Una visita da ostetrica come mille altre. Con la differenza che l’ostetrica è proprio un uomo.



Inizia così l’articolo del quotidiano tedesco “Die Zeit”, tutto dedicato a un personaggio che, a sorpresa, fa parlare di sé. Jens Unger è, per corretta definizione, l’unico ostetrico uomo in Germania. Con la moglie Wanda porta avanti, oltre che un lavoro di docente alla Bavaria-Klinik di Kreischa, un ambulatorio di ostetricia a Dresda-Johannstadt unito a visite a domicilio.

Prima possibile avvocato, poi volontario in ospedale: poteva scegliere oculistica, invece è entrato in sala parto. Studente alla scuola di ostetricia, unico maschio, ha conosciuto lì la moglie. Dice una ex compagna:

Wir haben uns gefragt, wieso der ausgerechnet diesen Job machen will. Für die meisten von uns war klar, als Patientinnen würden wir einen Mann nicht an uns ranlassen.

Ci siamo chieste, perché lui volesse fare questo lavoro. Per la maggior parte di noi ragazze era chiaro, come pazienti non ci saremmo mai affidate a un uomo.

L’accesso alle scuole di ostetricia tedesche è stato concesso agli uomini nel 1985. Jens è entrato nell’olimpo di una professione riservata, “di genere”. E racconta che le cose non sono tuttora semplici: quando sbaglia, anche se per piccoli errori, gli si rinfaccia di essere uomo. Le colleghe sostengono che lui non riesce a capire quello che una donna sente. Vero, ma secondo Jens un parto è più semplice di quel che si pensa:

Eine Geburt muss funktionieren – unabhängig von der Chromosomenkonstellation der Geburtshelfer.

Un parto deve funzionare, indipendentemente dalla costellazione di cromosomi dell’ostetrica/o.

Nella pratica le cose però si rivelano diverse. Jens ha portato a termine i tre anni di studio, ma l’associazione di categoria è chiusa ai maschi. Anche e soprattutto per le assegnazioni dei posti vacanti, per le quali si preferiscono ostetriche donne. Questione di storia, di sensibilità e di genere (femminile), secondo la portavoce Edith Wolber:

Genauso wie sich die meisten Männer lieber von einem männlichen Urologen behandeln ließen.

Così come la maggior parte degli uomini è più adatta a fare l’urologo.

Forse in questo l’Italia può vantare qualche passo in avanti. I ginecologi sono sempre più numerosi e molte donne li preferiscono alle colleghe femmine, proprio per la minor pretesa a “sentire empaticamente” la pazienti. Di ostetrici uomini ancora non se ne vedono molti e spesso e volentieri coincidono con i ginecologi. La FNCO (Federazione nazionale collegi ostetriche) si rivolge con maggiore apertura “alle iscritte e agli iscritti”. E poi c’è la AOGOI, che ingloba ostetrici e ginecologi ospedalieri.

Le pazienti invece si dividono sui blog dispensatori di consigli alle neo-mamme. C’è quella che ha apprezzato “il ragazzo molto gentile e timido ma attento in sala parto, una piacevole sorpresa” e quella che sbuffa: “Ci mancava l’ostetrico uomo, peggio delle doglie!”. Come direbbe Jens, basta che un parto funzioni. Il resto sono gusti.



Giovanna Boglietti

venerdì 9 luglio 2010

"Acciaio": perché tutto è ancora possibile.


Caso letterario o fenomeno mediatico. Come sempre, la semplificazione è dietro l’angolo quando si parla o si scrive di un successo. Così, la critica e il pubblico si spaccano, contendendo alla propria metà la definizione da regalare ad “Acciaio”, il romanzo che si è classificato al secondo posto al premio Strega 2010. L’autrice è Silvia Avallone, una donna giovanissima (classe 1984) e – aggiungo con orgoglio da campanilista – biellese d’origine, ma bolognese d’adozione.


Biella, composta come d’abitudine, non sembra volersi schierare. Assiste incuriosita e chiacchiera del fenomeno che la vede protagonista, da lontano. Ha dato i natali a una scrittrice che ha venduto migliaia di copie e si è aggiudicata un titolo unico per la città: nessun biellese era mai arrivato alle selezioni e poi alla finalissima dello Strega. Prima del prestigioso verdetto Silvia Avallone veniva considerata la favorita e molti affiancavano la sua impennata professionale a quella dell’altrettanto giovane esordiente, e piemontese, Paolo Giordano (“La solitudine dei numeri primi”, Mondadori).


In città, le vetrine sono orfane del romanzo, ma verranno sicuramente riallestite. Si scrive e si intervista Silvia Avallone. La si aspetta, probabilmente per il mese di agosto, secondo quanto riportato in un articolo de La stampa, sezione locale di Biella e Vercelli.


“Acciaio” piace al pubblico ed è piaciuto molto alla giuria del premio Strega. Ne si loda la storia, la delicatezza e la forza della descrizione di un reale che la poetessa conosce bene: la vita operaia attorno a una centrale produttrice di lamine di acciaio a Piombino. Il sindaco e qualche abitante non ne sono entusiasti, si rammarica Silvia Avallone in una intervista ad Affaritaliani.it ma lei sostiene di avere l’appoggio dei lavoratori che quella realtà la conoscono bene. Opinionisti illustri mettono un freno alle aspettative, a partire dallo stile “acerbo” di Avallone. C’è poi chi come Marco Belpoliti sulla Stampa nazionale è convinto si stia trattando di un’ottima impresa di marketing da parte della casa editrice Rizzoli: “È ciò che si può chiamare «effetto-Giordano», ovvero un caso da manuale di marketing: far vincere un importante premio letterario, lo Strega, a un debuttante con un romanzo che parla di bambini, ragazzi o, come nel caso della Avallone, di adolescenti vorticose, casalinghe sfatte, adulti in canottiera, un po' malavitosi e un po' operai di fonderia, quello che vorrebbe essere il perfetto ritratto della Italia contemporanea dannata e perdente, l'Italia della televisione berlusconiana”.


Andrebbe sottolineato un particolare sul quale ci si è soffermati molto poco e che è emerso soltanto in modo evidente durante l’intervista che Avallone ha rilasciato a Serena Dandini (puntata di “Parla con me”) prima ancora che il suo romanzo fosse sbarcato nella librerie. Vale a dire come sia nato il successo di “Acciaio”: semplicemente per posta. Basta il talento. Avallone ha mandato alcuni capitoli del romanzo e, dopo soli quindici giorni, ha ricevuto il sì della casa editrice. Segno che storie come la sua sono ancora possibili, anche in un mondo chiuso e affaticato come quello dell’editoria. Anche per questo si dovrebbe scrivere di “Acciaio”, spiraglio di luce per chi - esordiente - coltiva sogni con la propria penna.


Giovanna Boglietti

domenica 4 luglio 2010

Cassazione: assolto, nessun maltrattamento.
La moglie è di tempra forte.


I loro nomi e i loro visi sono stampati su tutti i giornali. Le loro fotografie, momenti privati e sereni, circolano su internet. Commenti ai blog le commemorano e gli ospiti in televisione scuotono la testa e ripetono che la violenza va fermata.
Meno di una settimana fa, si piangevano Maria e Sonia, una residente a Chieri in Piemonte l’altra in Lombardia, uccise dal loro ex lo stesso uomo, pluricondannato per stalking e mai fermato. In questi giorni, a Novara, non si parla che dell’uccisione di Simona, avvenuta addirittura per mano di un Carabiniere, che aveva una storia e un figlio con un’altra donna ma non voleva rinunciare a lei.



Coltellate, colpi di pistola; poi tutto finisce e a farne le spese sono loro, quei visi sereni di donna. Quante volte Maria e Sonia si saranno chieste: “Cosa posso fare, chi mi aiuterà a uscire da questo incubo?”. Non c’è risposta alla loro domanda. Le forze dell’ordine sembrano legate dalla prassi, le associazioni urlano inascoltate, i politici maschi (unici decisionisti) non concretizzano.


Il 2 giugno 2010 – pochi giorni dopo la loro triste fine – la Cassazione, nel nome dello Stato italiano, stabilisce che:


“I maltrattamenti cui viene sottoposta una donna che ha un forte temperamento non sono percepiti in quanto tali e dunque non costituiscono reato. Di conseguenza il fatto non sussiste”


L’uomo che ha beneficiato delle sentenza ha alle spalle una doppia condanna per maltrattamenti in famiglia. Si chiama Sandro, vive a Livigno in Lombardia. Sia il Tribunale di Sondrio che successivamente la Corte d’Appello di Milano avevano accolto le lamentele della moglie Roberta, vittima di maltrattamenti, condannando il marito - pure con la concessione delle attenuanti - a 8 mesi di reclusione con la condizionale.


Roberta avrà reagito. Non le avrà volute ricevere, tutte quelle "carezze". Deve pagare per il suo temperamento, per legittima difesa?


Secondo la Cassazione, i giudici di appello avevano rilevato come la moglie avesse un "carattere forte" e dunque non era affatto intimorita dall’atteggiamento del marito. In sostanza, la tesi difensiva di Sandro, accolta, si è basata sul fatto che i giudici "hanno scambiato per sopraffazione un semplice clima di tensione" tra coniugi.

Inoltre, la Suprema Corte fa notare
che "i fatti incriminati sono solo genericamente richiamati nella sentenza impugnata e appaiono risolversi in alcuni limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di circa 3 anni. Comportamenti di maltrattamento sporadico per i quali, la moglie aveva anche rinunciato alla querela”. Se Roberta avesse avuto paura di ritorsioni? Sandro è assolto.


E vissero felici a contenti, in Cassazione, però. Solo in Cassazione: Sandro non sconterà neanche un giorno, anzi tornerà a casa e chissà che non riprenda le cattive abitudini, se sua moglie non sarà già scappata lontano. Roberta, come ogni femmina, doveva subire. Nei secoli dei secoli, questa è stata la sola sentenza tangibile in materia di tutela della donne.


Giovanna Boglietti

Kumari: dee bambine o schiave?


Per alcuni le Kumari sono solo bambine, per altri vere e proprie schiave. Per tutta la tradizione religiosa del Nepal e degli Hindu, dee viventi nonché protettrici del re. Nel mondo si è parlato spesso del loro ruolo, sia dal punto di vista culturale e religioso ma anche politico e civile, nell’ambito della difesa dei diritti umani.


Nella venerabile storia delle dee bambine, appena due anni fa, è entrata infatti anche la Corte suprema della Repubblica himalayana. Ma oggi che un re non esiste più, detronizzato nel 2006, questa “istituzione” mantiene lo stesso valore? Sembra proprio di sì, nonostante la salita al potere dei maoisti.


Il Times of India ha pubblicato in questi giorni la notizia del diploma di una delle tre dee bambine viventi in Nepal, Chanira Bajracharya, 15 anni. Lei è la prima Kumari ad aver ottenuto il voto di 80,12 in un test che quasi la metà degli studenti non riesce a superare. E per la prima volta una Kumari potrà accedere all'università (vuole studiare informatica) e lavorare, non appena il suo “regno” sarà terminato. Un passo epocale, dal momento che la Corte suprema garantisce il diritto all’istruzione delle bambine solo dal 2008. E c’è di più: il governo nepalese, pochi giorni fa, ha concesso alle Kumari un aumento dello stipendio del 25 per cento, per investire sulla loro istruzione. Uno stipendio che equivale a 82 euro al mese, cifra molto sostanziosa in Nepal.


I maoisti, succeduti a una monarchia con alle spalle 238 anni di regno, hanno addirittura messo una pezza alla questione delle nomine delle Kumari. Nomina che è sempre spettata al sacerdote del re, altra carica scomparsa. La tradizione vuole che le Kumari di Patan, Kathmandu e Bhaktapur (gli antichi tre regni della valle) siano direttamente connesse con il re. La dea bambina di Kathmandu, la più importante, è colei che pone la tika, il sacro segno rosso, sulla fronte del monarca, legittimando così il potere reale per un anno. In campo è sceso addirittura il Ministero delle riforme: segno che, per quanto atei, i maoisti riconoscono sia impensabile privare il Nepal di una simile figura sacra.


Ma chi sono le Kumari e come diventano dee? Kumari significa “vergine”, a indicare la purezza della dea, incarnazione di Taleju Bhawani o Durga in India. Le Kumari vengono scelte tra le bambine delle caste buddiste newar, gli Shakya di Kathmandu.


L'attuale Kumari Reale è Matina Shakya. Verrà detronizzata all'arrivo del primo mestruo o a seguito di perdite di sangue o malattie (basta il sangue di un piccolo graffio). Questo perché per restare pura la Kumari non può ricevere le cure di alcun dottore.


Il corpo è il requisito primo: le bambine devono possedere “32 perfezioni”, anomale in un fisico ancora acerbo addirittura di soli 3 anni (esempio: ciglia come quelle di una mucca, cosce di daino, guance come quelle di un leone, corpo come un albero di banano).


Il carattere è il requisito secondo: la Kumari non può piangere, mostrarsi disinteressata o irrequieta, tantomeno muoversi durante i riti. Infatti ognuno di questi gesti è causa di gravi sciagure per il Nepal. Durante la “notte nera” o el Kalratri, le candidate dormono in una stanza buia tra le teste di capre e 108 bufali sacrificati in onore della dea Kali, con uomini mascherati da demoni a spaventarle. Quella che resiste è la Dea.


La Kumari vive reclusa nel suo palazzo, lontana dalla famiglia. Nella piena sacralità, ma una volta deposta torna mortale. Condizione difficile da accettare. Quasi tutte le ultime tredici ex Kumari si sono sposate e hanno avuto figli, ma la leggenda tramanda che il marito è condannato a morire entro sei mesi, tossendo sangue. Alle superstizioni si aggiunge la spinta modernizzatrice maoista che, pur conservando la figura per il consenso, non la approva. Le riforme apportate seguono la sentenza della Corte suprema della neonata repubblica himalayana, secondo la quale il trattamento subito dalle dee bambine viola i diritti sanciti dalla Convenzione internazionale dei diritti dell'infanzia.

In un articolo Deepak Shimkhada, presidente di Indic Foundation e Asian Studies on the Pacific Coast, sostiene invece che la questione deve essere ridimensionata, perché si lega a figure comunque privilegiate, che in varie interviste si riconoscono come tali e ne sono felici:


“In open interviews, all former Kumaris enjoyed their role as a Kumari and never regretted it. So what is the fuss? They all felt empowered and special, even if only for a few years. If the Kumaris do not feel that they have been exploited, isn't the human rights group acting as Big Brother? Is this really such a significant social problem of Nepal that it requires court intervention?”


Ci sono faccende più urgenti per Shimkhada. Bambine prostitute, mogli bambine, bambine madri che rischiano di morire di parto, bambine che non possono studiare
:


“Abolishing the Kumari tradition will not solve these more serious problems”. Abolire la tradizione della Kumari non risolverà niente di tutto questo.




Giovanna Boglietti