giovedì 26 agosto 2010

Messico: in centinaia arrestate per un aborto. Molte sono vittime di stupri

“Alle donne che vengono picchiate dai mariti, si consiglia di rassegnarsi, ridere e raccogliersi in preghiera”. Lo prescrive la regola della Tripla R.
“Le donne nel momento in cui sono violentate secernono un liquido spermicida, che le protegge dalla gravidanza”.
“Per amore o per violenza l'aborto è un delitto”: gli aborti spontanei per denutrizione o per qualsiasi altro tipo di limitazione fisica, vengono puniti con pene fino a 35 anni di carcere. E quelli che vengono realizzati in forma volontaria, anche.

La denuncia sul blog di Jaime Avilés (leggi il post). Corre infatti sul filo di queste prese di posizione, che hanno dell’incredibile, la campagna di sensibilizzazione lanciata da Desfiladero per l'immediata liberazione di alcune contadine messicane condannate all’ergastolo per aver abortito, una di queste dopo aver subito uno stupro. La campagna dovrebbe avere come asse centrale il Centro Las Libres, le cui operatrici lottano nello Stato di Guanajuato per i diritti delle donne. Basti pensare che in questo momento, proprio a Guanajuato, altre 166 donne sono state consegnate dai loro “medici” alla polizia. Di queste, 43 si trovano a disposizione del giudice per essere sottoposte a un processo penale.

Una notizia, quella dell’arresto delle contadine, che si somma a tante altre, lungo gli anni. Si leggeva pochi giorni fa sulla rivista Latinoamerica e tutti i Sud del mondo:

In Messico per il 90% degli omicidi non si apre neanche un’inchiesta […] Secondo uno studio della Commissione per i diritti umani dello Stato di Guanajuato, le 166 donne attualmente in carcere solo in quello stato (è difficile non notare che siano ben di più dei cosiddetti prigionieri politici cubani) sono praticamente tutte contadine analfabete, spesso già madri di vari figli e in molti casi vittime di stupri.

È il combinato disposto, perverso, di due leggi che sono oramai applicate in 18 stati della federazione messicana che si sono mossi in senso opposto alla capitale federale, Città del Messico, dove dal 2007 l’aborto è legale nelle prime 12 settimane di gravidanza. Da una parte il feto è divenuto una persona a tutti gli effetti fin dal momento del concepimento. Dall’altro le leggi sulla violenza familiare, in genere completamente disattese contro gli uomini violenti, diventano un macigno nel caso dell’aborto. Così l’aborto è passato in molti stati dall’essere condannato con pene tra i sei mesi e i tre anni di carcere all’essere considerato come ‘omicidio volontario aggravato dalla relazione di parentela’ e comportare quindi pene che arrivano a corrispondere al nostro ergastolo.

Nel paese dei Legionari di Cristo, dove consideravano un santo il fondatore degli stessi il pedofilo e stupratore seriale Marcial Maciel, “dopo la sconfitta di Città del Messico –sostiene María Consuelo Meijía Direttrice dell’organizzazione ‘Donne cattoliche per il diritto di scegliere’- l’ultra-destra conservatrice e le gerarchie cattoliche hanno ottenuto la loro vendetta negli stati più arretrati”.

I dati: 800mila gli aborti clandestini ogni anno contro i circa 40.000 aborti legali che avvengono in strutture pubbliche a Città del Messico. La battaglia politica, anche a livello di riforme costituzionali, è in corso.

Una sfida anche per le donne impegnate in politica. Scriveva già un anno fa la giornalista messicana Sara Rovera (leggi):

“Alla fine della LX legislatura messicana, Elsa Conde, del partito socialdemocratico, membra del gruppo che in questa legislatura ha riunito le femministe ha rivelato che le deputate progressiste hanno dovuto affrontare da vere e proprie resistenti molte azioni, alcune delle quali fallite, portate avanti contro il progresso delle donne […] A cominciare dalle bordate contro la contraccezione di emergenza (pillola del giorno dopo), a seguire con un errore nella riforma elettorale che, invece di aumentare i seggi per le donne li ha diminuiti; il priismo si è affiancato al panismo, per cercare di modificare la Costituzione in 14 entità del Messico con lo scopo di attribuire al neonato personalità giuridica ed eliminare quelle eccezioni che consentono l’aborto legale […] ed è stato riconosciuto che ci sono stati molGrassettoti passi indietro e che addirittura incombe la minaccia che la proibizione assoluta dell’aborto venga portata davanti al Congreso Nacional e che venga ristretto l’uso di anticoncezionali”.

I 31 Stati federali che compongono il Messico non si smentiscono, come riporta Peace Reporter in un articolo di maggio. Una condizione, quella messicana del tutto simile a quella di altri Paesi limitrofi.

Lo denuncia Amnesty International parlando di Nicaragua, in cui una legge vieta totalmente l’aborto. Tanto che sarebbero negate le cure mediche a donne e ragazze vittime di stupro e incesto, e obbligate a partorire.

I dati raccolti da Semlac in una inchiesta (leggi l’approfondimento) tristemente confermano:
“Tre milioni di donne, quasi la popolazione totale dell’Uruguay, ricorrono ogni anno all’aborto in 12 paesi dell’America Latina e Caraibi. Altri tre milioni vi ricorrono in Brasile. La stragrande maggioranza lo fa clandestinamente poiché le leggi delle nazioni in cui vivono, criminalizzano questa pratica”.


Giovanna Boglietti

mercoledì 25 agosto 2010

Afghanistan: apre la prima scuola di giornalismo per sole donne

Nella provincia di Herat, con il sostegno del contingente italiano.

Fare la giornalista in Afghanistan può essere molto pericoloso. Le donne che si avventurano in quel campo fronteggiano quotidianamente aggressioni, spesso rischiano la vita. A poche ragazze viene in mente di studiare giornalismo.

Tre giornaliste afghane hanno deciso di sfidare questa tendenza. Hanno fondato tre mesi fa il primo centro di giornalismo del paese rivolto esclusivamente alle donne. L’obiettivo è formare laureate in giornalismo ed aiutarle a trovare lavoro nel mondo dei media nella provincia di Herat e in quelle vicine.

L’Università di Herat aveva già incominciato otto anni fa un programma aperto alle aspiranti giornaliste. Ma le ragazze che si diplomavano lì, circa venti all’anno, «Finivano coll’insegnare nelle scuole, perché non trovavano posto nei media locali o per pregiudizi sociali», dice Fawzia Fakhri, direttrice del nuovo centro. Il centro nasce quindi «per incoraggiare le donne che hanno studiato quattro anni per diplomarsi in giornalismo».

Fawzia Fakhri ha 30 anni, ha dovuto faticare molto per arrivare dov’è adesso. Brillante studentessa all’universita di Kabul, si è laureata nel 1996. Voleva diventare un medico. La sua carriera viene bruscamente interrotta quando i talebani prendono il potere. Si iscrive allora a una scuola per ostetriche, l’unica possibilità per una ragazza che voleva studiare medicina. Caduto il regime, cerca di riprendere il suo sogno, ma stavolta è la famiglia ad opporsi. Oggi ha alle spalle quattro anni in una stazione radiofonica di sole donne, Radio Sahar e collabora anche con giornali locali.

«In passato ci sono stati almeno tre centri dedicati al giornalismo – dice la Fakhri – ma non ci sono mai andata: le donne non erano mai invitate». La sua scuola, invece, avrà corsi pratici in tutti i settori. L’obiettivo è aprire un sito web, una radio e una televisione tutte al femminile. «Abbiamo bisogno del sostegno dei governi e delle organizzazioni internazionali», dice Fawzia. Ad oggi sono già arrivati quattro computer dal team italiano per la ricostruzione della provincia.

martedì 17 agosto 2010

Germania: popstar a processo per aver trasmesso l'Hiv ai suoi partner. "Ho accantonato il rischio"

“In schlichter dunkellila Baumwollbluse, Jeans, flachen Schuhen und mit zum Pferdeschwanz gebundenem Haar, tritt nicht auf wie ein Popstar aus der Glitzerwelt des Musikbusiness, sondern als eine in sich gekehrte, sanfte, junge Frau, die sich ihrer Verantwortung, gegebenenfalls auch ihrer Schuld, durchaus bewusst ist”.

Una camicia di cotone viola scuro, jeans, una coda di cavallo. Non è una popstar quella che si presenta in aula, ma una ragazza giovane che dimostra pentimento, consapevole di quale sia la sua responsabilità. Lo Spiegel descrive così l’abbigliamento e il piglio di Nadja Benaissa, una delle quattro cantanti del gruppo femminile più amato in Germania, le No Angel (guarda la partecipazione al programma Fernsehgarten 2009).


Benaissa si è presentata ieri all’apertura del processo che la vede imputata a Darmstadt, con un’accusa pesante: aver infettato consapevolmente alcuni partner, non dicendo loro di avere l’Hiv.

“Warum verschwieg Benaissa ihre Krankheit - obwohl sie doch gewusst haben musste, dass sie die Männer durch ungeschützten Sex anstecken konnte? Diese Frage steht im Zentrum des Prozesses”.

Come scrive il quotidiano tedesco, proprio l’omertà della cantante - che sapeva della sua malattia – sarà il punto focale del processo. La difesa dovrebbe puntare sulla vita difficile della ragazza, 28 anni, una figlia di 11. Brutte compagnie e le prime sbandate da adolescente, alcol e marijuana, fino alla dipendenza da crack, lo stop del percorso scolastico e la vita sulla strada. I genitori, un marocchino e una tedesca di origine rom, cercano di riportarla sulla retta via e lei esce dall’incubo. Fino al 1999, l’anno in cui scopre di essere malata di Hiv, facendo un test di gravidanza.

"Meine ganze Sorge galt nun meinem ungeborenen Kind", berichtet sie. "Ärzte versicherten mir, die Ansteckungsgefahr sei äußerst gering, wenn ich diszipliniert lebte und meine Medikamente regelmäßig einnähme." Daher habe sie die Krankheit Freunden und Bekannten gegenüber verschwiegen. "Ich sah keinen Anlass, die Krankheit öffentlich zu machen, da ja ein Ausbruch nicht zu erwarten war."

“Il mio unico pensiero andava alla bambina non ancora nata. I medici mi assicurarono che il pericolo di contagio per la piccola era da escludersi, se avessi vissuto in modo disciplinato e avessi preso i medicinali regolarmente”. Così ha nascosto ad amici e familiari la malattia. “Non vedevo alcun motivo di renderla pubblica, e non mi sarei aspettata una bomba simile”.

La ragazza non molla. Nel 2000 inizia la sua carriera musicale che la porterà a vincere con la band No angel il talent-show più prestigioso in Germania.

"Ich hatte die Vorstellung: Ich kann die Infektion nicht öffentlich machen, ohne die Karriere der Band zu beschädigen".

“Avevo in mente: se faccio sapere che sono malata, la carriera della band si rovinerà”.

"Ich suchte nach einer festen Beziehung", sagt Benaissa. "Ich suchte einen Mann, der auch meine Tochter akzeptiert und von ihr akzeptiert wird. Aber dann merkte ich, dass das fast unmöglich ist." Sie ging flüchtige Beziehungen ein, über Verhütung sei nicht gesprochen worden. "Meine Partner waren da sehr sorglos".

“Cercavo una relazione stabile, un uomo che accettasse anche mia figlia e che fosse accettato da lei. Ma poi ho capito che questo non era possibile”. Passava di relazione in relazione, senza mai parlare di contraccezione per essere protetti. “I miei partner non se ne preoccupavano minimamente”.

"Ich wurde nie gefragt, ob ich verhüte", sagt sie. Warum sie die Infektion verschwiegen habe, will der Richter wissen. "Ich weiß nicht", sagt sie, "ich hatte einfach eine tierische Angst."
“Non mi hanno mai chiesto di usare contraccettivi”. Se le si chiede perché ha nascosto la malattia, la cantante risponde: “Non lo so. Avevo semplicemente una paura bestiale”.

Cinque uomini potrebbero pagare il suo silenzio, la leggerezza dei rapporti non protetti. Uno di loro, assistente artistico di 34 anni, ha contratto l’Hiv ed è tra quanti hanno denunciato la cantante. Negli altri quattro casi, dove il contagio non è avvenuto, la denuncia è per tentate lesioni personali aggravate.

"Ich habe Fehler gemacht. Ich hatte eine Verantwortung. Ich habe das Risiko verdrängt. Ich habe nicht gewollt, dass sich jemand bei mir ansteckt. Ich hätte mit dem Thema verantwortungsvoller umgehen müssen."


Si dichiara colpevole: “Ho sbagliato. Ho una responsabilità. Ho accantonato il pericolo. Non volevo che qualcuno mi scoprisse. Avrei dovuto agire con coscienza”.
E la vittima cosa ha detto in aula?
"Ich? Ich soll mit der da Kontakt aufnehmen?" Er streift sie mit Blicken. "Bin ich etwa in der Bringschuld?" Benaissas Tante habe ihn damals über die Infektion ihrer Nichte aufgeklärt. "Wenn die mir das nicht gesagt hätte - ich wäre dumm gestorben!", empört sich der Mann. "Ich hätte ja Tausende Frauen anstecken können!" Er sei mit ehemaligen Sexpartnerinnen zum Arzt gegangen, damit diese sich testen lassen. "Wissen Sie, wie unangenehm das ist?", fragt er den Vorsitzenden, woraufhin Verteidiger Wallasch Benaissas Geständnis erwähnt.
“Io dovrei avere contatti con lei?”. La fulmina con gli occhi. “Sono io in debito? Se sua zia non me ne avesse parlato io a quest’ora sarei morto. Ho avuto un sacco di donne che potevano ammalarsi!”. L’uomo è andato dal medico per sottoporsi al test con la sua compagna ufficiale. “Vi rendete conto che non è possibile tenerlo nascosto?”.

Eppure la cantante ha tenuto tutto nel silenzio, fino a pochi mesi fa. Lo scorso novembre Benaissa si è presentata a una serata di beneficienza a Berlino ed è salita sul palco dicendo: "Il mio nome è Nadja Benaissa, ho 27 anni, ho una figlia e sono sieropositiva". Semplice, ma fatale. Ora rischia fino a 10 anni di carcere. Quel che ha da dire non è che: “Mi dispiace di cuore”.




Giovanna Boglietti

venerdì 13 agosto 2010

Messico: Ciudad Juarez, la città dei femicidi e
dei narcos. Adesso parlano le madri di famiglia.


Da una parte i narcos, dall’altra le madri. In mezzo una distesa di croci rosa, piantate nella terra per ricordare centinaia di donne massacrate brutalmente. La frontiera tra Messico e Stati Uniti separa due territori, ma al di qua della linea ci sono altri fronti contrapposti, fronti interni che l’occhio straniero fatica a riconoscere.

Verso la frontiera tra Messico e Stati Uniti sorge Ciudad Juarez, la città considerata la più pericolosa al mondo, roccaforte del traffico di uomini e droga in viaggio verso la patria a stelle e strisce, nonché teatro di uccisioni e sparizioni di giovani donne da più di una decina d’anni (un video d’inchiesta). Ma a parlare adesso, oltre ai parenti delle vittime che si sono organizzati nell’associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa, sono anche le madri dei futuri abitanti di Ciudad.

Lo fanno attraverso un video, "Educare Ciudad Juarez" girato dalla fondazione Omnilife e pubblicato su internet, per raccontare di quanto i loro figli abbiano bisogno di una buona educazione per crescere e cambiare, il minimo ma quanto manca. La nuova scuola elementare porta i bambini a socializzare e a sviluppare un senso di solidarietà e comunione. Valori che esportano anche agli adulti: “Imparano e poi ci insegnano cose che noi non sappiamo”, confessa una madre.


Associazioni di vario genere, in testa Amnesty International, continuano a chiedere di intervenire contro le violenze di Ciudad. Ma le notizie non si fermano. Questa mattina un articolo sul sito del Corriere della Sera parlava delle fotografie trasmesse dalla dogana statunitense per svelare i trucchi usati dalle gang, allo scopo di superare i controlli: immigrati “travestiti” da sedile, clandestini nascosti nel motore, droga infilata in nascondigli ingegnosi come pompe e idranti, fogli per rivestimenti, impasti da mattoni. Tanto che il presidente Obama ha assicurato che da ottobre, insieme alla Border Patrol, saranno schierati anche i soldati della Guardia nazionale.

Nella “città-inferno” (come scriveva La Stampa) di Ciudad Juarez si registra il più alto numero di omicidi nelle guerre ingaggiate dal governo di Felipe Calderon contro i narcos e dai diversi cartelli della droga fra di loro. Una serie di scontri, massacri e omicidi, dal 2006 a oggi, ha portato a 28 mila morti.

Non solo, l’Ansa riporta che a crescere è anche “la collusione tra le organizzazioni criminali e alcuni membri delle forze dell'ordine a libro paga dei narcos. Per ovviare alla corruzione della polizia, che pure ha pagato un alto tributo di sangue in questa guerra con quasi tremila caduti in tutto il Paese, il presidente Calderon ha messo in campo l'esercito, ma la situazione non accenna comunque a migliorare”. Lo dimostra la rivolta del 9 agosto, quando trecento agenti della polizia federale messicana hanno preso d'assalto il loro comando, a Ciudad Juarez, per chiedere la destituzione del comandante, considerato collegato ai cartelli della droga.

Madri, donne assassinate o scomparse, droga. Tutto a Ciudad si mescola. Dal 1993, la città è il maggiore cartello di narcotraffico della cocaina colombiana diretta negli Stati Uniti. E proprio nel 1993 è iniziata la serie di omicidi, rapimenti e violenze ai danni di donne giovanissime: 600 in questi diciassette anni, delle quali 460 ritrovate (le altre forse sono state sciolte per “lechada”, nell’acido). Sette vittime in ventiquattro ore solo all’inizio di agosto (le statistiche e i dettagli). Donne alla mercé delle 500 gang che spadroneggiano in città.

Molte di queste donne, operaie di fabbrica (maquilladoras) malpagate, hanno subito stupri e torture prima di essere barbaramente strangolate o accoltellate. Innumerevoli anche le denunce di scomparse e altissimo il grado di impunità per questi delitti. A causa della corruzione e dell’inefficienza di polizia e magistratura finora sono ben poche le condanne definitive. Restano aperte svariate ipotesi sui delitti: dal traffico d'organi ai rituali di una setta satanica, senza escludere il fenomeno dell'imitazione, e sembra probabile l'esistenza di uno o più serial killer (di recente l’arresto di un americano).

Sulla storia di Ciudad Juarez è stato girato un film interpretato da Jennifer Lopez, “Bordertown”. Victor Ronquillo ne ha fatto prima un reportage televisivo poi un libro, “L’inferno di Ciudad Juárez. La strage di centinaia di donne al confine Messico-Usa” (B.C. Dalai Editore). Amnesty International ha cercato la sensibilizzazione tramite cartoline.

Già nel 2007, sul sito de Il paese delle donne, si leggeva:


“Polizia, magistratura, governo locale e federale minimizzano il numero di omicidi e anzi indicano nelle vittime le vere responsabili che passeggiavano in luoghi bui e indossavano minigonne o altre mises provocanti… Alla fine del 1999, alcuni cadaveri di donne e bambine furono ritrovati vicino ai ranch di proprietà di trafficanti di cocaina. Tale coincidenza sembrava stabilire un legame tra gli omicidi e la mafia del narcotraffico, a sua volta legata alla polizia e ai militari, ma le autorità rifiutarono di seguire questa pista preferendo piuttosto incolpare consapevolmente degli innocenti, tanto per placare un po’ l’opinione pubblica”.

Gli ultimi sette omicidi, in ventiquattro ore, allungano la lista delle vittime di quello che i parenti chiamano “femicidio”. La rete, che conserva fatti datati e recenti, continua a mobilitarsi: su Facebook da meno di un anno è stato attivato il
gruppo “Chiediamo Giustizia per le donne e le bambine di Ciudad Juarez”. Emblematico il commento di Ilaria, una dei membri:

"La cosa più grave è che di questa terribile verità nessuno vuole parlare... Se non fosse stato per il film, in Italia, la conoscerebbero in pochi...”.



Giovanna Boglietti

giovedì 5 agosto 2010

Keiko Fujimori, una giapponese per il Perù.
La figlia del dittatore verso la presidenza

Keiko, in giapponese, ha tra i kanji e possibili significati quello di “figlia fortunata”. Ben si addice a Keiko Fujimori, la figlia dell’ex dittatore Alberto che nei sondaggi elettorali di questi giorni risulta in testa per la corsa alla presidenza del Perù.

Mancano meno di nove mesi alle elezioni presidenziali, che farebbero ben sperare la Fujimori, 35 anni, una laurea alla Columbia University – almeno secondo le agenzie di statistica peruviane. La figlia del dittatore non è nuova al successo: era già stata eletta nel 2006 al Congresso della Repubblica, l’unica camera in cui si articola il potere legislativo in Perù, con il più alto numero di voti.

Il suo cognome rimanda però al decennio più cupo della storia del Paese. Vent’anni fa (era il 28 luglio 1990) il padre Alberto Fujimori, agronomo, fisico e matematico di origini giapponesi, è stato eletto presidente del Perù. Da lì a poco la presidenza di Fujimori ha virato bruscamente verso un governo autoritario, fino a diventare una vera e propria dittatura: commissariamento di omicidi, uso della tortura, sospensione delle attività della magistratura e la revisione della Costituzione con lo scopo di permettere una sua terza candidatura.

Scrive Simone Olivelli in articolo apparso su newnotizie.it: “L’era Fujimori si concluse nel 2000, quando il suo governo fu travolto dalla corruzione e l’opinione pubblica si infiammò, costringendo il presidente all’esilio in Giappone per paura di essere processato. Nel 2005 fu arrestato in Cile per poi essere estradato in Perù dove è stato condannato a 25 anni con l’accusa d’aver ordinato l’omicidio di 30 persone, utilizzato il sequestro di persona e aver violato più volte i diritti umani. Oggi, a distanza di dieci anni dalla fuga dell’ex presidente in Giappone, in Perù si parla di Fujimori non solo per commentare il passato, ma anche per guardare al futuro”.

Adesso potrebbe essere il turno di Keiko, che già nel 1994 è stata insignita dal dittatore del titolo di first lady. Gli occhi saranno puntati sulle sue possibili mosse; basta pensare che la Tribunalatina.com già qualche mese fa riportava come, all’interno del suo programma elettorale, spicchi il proposito di concedere un indulto al padre.

Perù e Giappone saranno forse ancora una volta legati. Fuori dai palazzi del potere, in fondo, lo sono già, complice l’immigrazione nipponica che s’è aggiunta al melting pot di culture presenti in Perù, per dedicarsi all’agricoltura (leggi qui). E Keiko Fujimori è una delle donne di origine giapponese che in Perù fanno la differenza. La famiglia Fujimori ha lasciato il segno anche in questo senso, come riporta ExpactClick.com (L’espatrio al femminile) riportando il racconto di Doris Moromisato, scrittrice e studiosa di spicco in Perù:

“Nel 1992 la crisi matrimoniale dell'allora presidente della repubblica del Perù Alberto Fujimori e sua moglie Susana Higuchi, portò alla luce per la prima volta la rigida gerarchia patriarcale delle famiglie nipponiche e la situazione che vivono le loro donne. Di fronte al violento intervento della giapponese Susana Higuchi, che denunciava maltrattamenti fisici e psicologici da parte di suo marito, e reclamava i suoi diritti come qualsiasi cittadina peruviana, tutti i mezzi di comunicazione si chiesero: dov'è il modello di donna giapponese, sottomessa e obbediente, che tutti hanno in mente?”.

Fin dall'inizio della presenza giapponese in Perù, le sue donne hanno avuto due compiti fondamentali: organizzare la sfera domestica e conservare costumi e valori per garantire che la cultura giapponese non si diluisse nella società peruviana. Una quantità significativa di donne giapponesi in Perù si è registrata nel 1903, con l'arrivo del secondo contingente di lavoratori giapponesi, nel quale c'erano 109 donne.

“Anche se in un primo momento le donne erano arrivate in qualità di accompagnatrici, subito dopo dovettero ricoprire doppi e tripli incarichi come mogli, madri e lavoratrici, assumendo al contempo la condizione comune a tutti gli immigranti. In quel momento mostravano lo stereotipo femminile radicato in loro attraverso secoli di cultura originale giapponese: obbedienza, discrezione, sottomissione. A partire dalle sansei o discendenti di terza generazione, l'idea di autonomia diventa basilare, e la professionalità e l'indipendenza economica sono i punti fondamentali delle loro vite; il loro progetto di vita punta all'inserimento negli spazi non giapponesi”.

L’elezione di Keiko Fujimori, al di là delle sue origini, avrebbe allora un’altra valenza, proprio perché – secondo quanto studiato da Doris Moromisato:

“Rivedendo gli atti di dodici Assemblee Annuali dei Rappresentanti dell'Associazione Peruviano-Giapponese, compresi tra il 1986 e il 1984, sono giunta alla conclusione che alle donne non è mai stato permesso pianificare, e ancora meno decidere, nessun aspetto della vita comunitaria. Tutte le donne sansei oggi rifiutano di partecipare ad istituzioni di carattere femminile, perchè le considerano domestiche e in generale segregazioniste, oltre che contrarie alla loro ricerca di professionalità e inserimento nella società peruviana. D'altro canto, le giovani generazioni mostrano la tendenza all'esogenesi o uscita dalla comunità etnica. Esiste oggi un considerevole numero di matrimoni misti o con persone non giapponesi. Se consideriamo che le donne sono state - e sono - le guardiane di una cultura che si è forgiata in cento anni di presenza giapponese in Perù, capiamo che con la loro indifferenza la comunità nipponica corre il rischio di scomparire”.


Giovanna Boglietti

lunedì 2 agosto 2010

Luciano Barbera: made in Italy in crisi? Tutto per un capitolo. O quasi

Lo chiamano il contadino del tessile, a Biella. Definizione che si accompagna a quella che in tutto il mondo ha fatto di lui uno dei re Mida dell’eleganza. Come scrive il New York Times, “dressed in a style that could be described as aristo-casual”. Il sovrano dell’aristo-casual Luciano Barbera, uno dei rappresentanti italiani delle aziende artigiane assurte allo stato di fucine di pregiatissimi tessuti e modelli di stile, per qualcuno è anche un “grillo parlante”.

In questi giorni le considerazioni di Luciano Barbera sul mondo dell’industria medio-piccola italiana, che potrebbero non sostenere più l’economia del Paese, ribadiscono concetti già espressi. Ma adesso Barbera parla dalle pagine del sito del New York Times. Il 72enne biellese ha infatti fondato nel 1992 la Barbera Usa, diretta da Michael Sestak.


Il NYT scrive che l’economia italiana, la settima al mondo, rientra nella lista delle Nazioni che spaventano l’Europa e che sotto certi aspetti la situazione in Italia assomiglia a quella in Grecia:

Study the numbers and you will find symptoms of distress that look a lot like those of Greece. Public sector debt amounts to roughly 118 percent of the gross domestic product, nearly identical to Greece. And like Greece, Italy is trying to ease fears in the euro zone and elsewhere with an austerity package, one intended to cut the deficit in half, to 2.7 percent of G.D.P., by 2012”.

Con la differenza -specifica il giornalista del NYT - che in Italia "saggiamente" si contraggono debiti con propri connazionali, non all’estero:

“But dig a little deeper and the similarities end. The Italians, unlike the Greeks, are born savers, and much of the Italian debt is owned by the Italians. That means that unlike Greece, which will be sending a sizable percentage of its G.D.P. to foreign creditors for a generation to come, Italy is basically in hock to its own citizens”.

Carlo Altomonte, economista alla Bocconi di Milano citato dal giornalista americano, punta su un altro aspetto: “Il problema italiano non è quello di avere molti debiti. Ma quello di avere un’economia che non cresce”.

Di recente l’Italia è stata descritta come modello anti-crisi, simbolo di un equilibrio precario, determinato da un costante debito pubblico, che comunque mantiene a galla l’economia. A galla molti restano a fatica, crisi economica inclusa o esclusa. Luciano Barbera è in questi giorni a Milano per l’apertura del caso, in tribunale, relativo al fallimento del Lanificio Carlo Barbera. Tra debiti, prestiti e possibili fusioni, come spiegava lo scorso novembre in un articolo sul fatturato 2008 Fashion Magazine.it.

Il NYT: “Like Italy, Mr. Barbera has debt woes — he owes his creditors roughly $5.8 million and says that if his country’s financial system offered the protections of Chapter 11-style bankruptcy, he would have sought it several years ago. But he could also solve his debt problem if more orders were coming in”.

Se l’Italia applicasse il “capitolo 11”, dice nell'intervista Barbera che eppure vende agli stores Berney’s e Neiman Marcus e veste Angelina Jolie sul set del suo nuovo film “Salt” (vedi foto), avrebbe risolto i debiti già da anni. Capitolo 11? Riporto la definizione: "Quando un imprenditore negli Stati Uniti non è in grado di onorare i suoi debiti, quest'ultimo o i suoi creditori possono chiedere ad una corte federale la protezione prevista dal Chapter 7 o dal Chapter 11. Nel Chapter 11 l'imprenditore rimane solitamente in possesso di tutti i suoi beni ed è però sottoposto al controllo e alla giurisdizione della corte. Con l'ingresso nel Chapter 11 tutte le azioni dei creditori volte a pretendere il pagamento dei loro debiti sono automaticamente bloccate". Esattamente come nella legge fallimentare italiana, dicono.


Giovanna Boglietti

domenica 1 agosto 2010

Iran: parla al New York Times la "sosia" di Neda

Durante le proteste in Iran del giugno 2009 a un certo punto in rete iniziò a girare molto un video, fino a diventare il simbolo della protesta contro la violenza repressiva del regime di Ahmadinejad. Mostrava gli ultimi momenti di vita di una giovane donna colpita da un proiettile della polizia iraniana. La donna era stesa a terra, gli occhi ancora aperti e i fiotti di sangue che uscivano copiosi dal naso e dalla bocca. Tra gli uomini che cercarono di soccorrerla inutilmente ce n’era uno che urlava disperato il suo nome: Neda, Neda.

Appena il video fu diffuso su internet la stampa internazionale cercò di capire chi fosse quella donna, il cui nome era ormai urlato da tutti durante le proteste che continuavano per le strade della città. Il suo nome era Neda Agha-Soltan, aveva 26 anni e studiava alla Islamic Azad University di Teheran. La stessa università in cui un’altra Neda, Neda Soltani, lavorava come insegnante di inglese. La storia di Zahra Soltani, conosciuta da tutti come Neda Soltani, è la storia di una donna di 33 anni che per uno sfortunato caso di omonimia si è ritrovata simbolo involontario della protesta contro il regime di Ahmadinejad. E che per questo è stata costretta a fuggire dal proprio paese, lasciare la sua famiglia e il suo lavoro e vivere rifugiata in Germania. Il New York Times ne parla in un lungo articolo.

«Ero molto sorpresa», racconta «quando controllai la mia mail il 21 giugno trovai più di 60 richieste di amicizia su Facebook da persone di tutte il mondo». Nei giorni successivi il numero continuò a salire, Neda e sua madre non si rendevano conto finché non videro la sua foto in un servizio in televisione. Per tutto il mondo era lei la donna uccisa durante le proteste dal regime iraniano. Cercò di mettersi in contatto con i media per spiegare che c’era stato un errore, ma anche quando le foto della vera Neda iniziarono a circolare la sua foto continuava ad essere associata a quell’episodio. Il 24 giugno l’intelligence iraniana era già sulle sue tracce.

La polizia iraniana andò a prenderla a casa pochi giorni dopo per un primo interrogatorio. Le chiesero di dire davanti a una telecamera che era viva e che quel video era solo una montatura dei media occidentali. «Volevano usarmi per denunciare la morte di Neda, volevano sfruttare la mia visibilità in quel momento per dire al mondo che si trattava solo di una mezogna, che Neda era viva. Volevano anche che condannassi i cospiratori occidentali per quello che avevano cercato di fare». Al New York Times ha raccontato che alcuni degli uomini che l’hanno interrogata erano armati e che la minacciavano, «farai meglio a fare quello che ti chiediamo», le dicevano.

Alcuni giorni dopo tornarono di nuovo a prenderla a casa e di nuovo la interrogarono a lungo cercando di convincerla a confessare. «È molto comune che le autorità iraniane costringano qualcuno a fare una confessione falsa, per poi magari trasmetterla in tv o tenerla da parte come arma di ricatto», spiega. Il primo luglio la polizia la interrogò di nuovo: aveva saputo che si era rivolta ad alcune organizzazioni umanitarie internazionali per chiedere aiuto e l’accusava di essere una spia. Il giorno dopo decise di scappare.

«Avevo solo uno zaino, un computer e una borsetta», racconta. Rimase in Turchia per nove giorni, poi si spostò in Grecia e da lì in Germania, dove arrivò a metà luglio. Enrico Manthey, un portavoce dell’ufficio immigrazione tedesco ha detto che le autorità si convinsero subito della sua storia: il racconto di come venivano condotti gli interrogatori corrispondeva a molti altri racconti di persone che a loro volta erano state interrogate dalle autorità iraniane.

Ora Neda Soltani vive in un paese vicino a Francoforte -- di cui preferisce non dire il nome -- è disoccupata e dice di sentire molto la sua mancanza del suo lavoro e della sua famiglia. Prima di quel giorno, non aveva mai pensato di lasciare l’Iran. «Soffro molto di nostalgia, la mia vita mi piaceva prima che iniziasse quest’incubo». Tutt’oggi la sua foto continua ad apparire associata alla storia di Neda Soltan, la ragazza di 26 anni uccisa mentre manifestava disarmata per le strade di Teheran.

(Il Post.it)


Il post di Fumerie d'ozio: Neda, nel giardino rosa delle martiri (giugno 2009).