domenica 26 aprile 2009

Nessuno, se non di rado, ci ha mai fatto caso, ma i profili impervi delle montagne ricordano spesso i tratti dei visi delle persone care. Ci si ritrova il sorriso largo di una madre, il naso importante di un fratello, lo sguardo imbarazzato del primo amore. Per Kriemhild Buhl sfiorare con le dita la cresta di una montagna significa accarezzare il volto di un padre, che alla passione per l’alta quota consacrò la vita.
Kriemhild Buhl porta un cognome importante: il padre Hermann fu infatti uno dei più famosi alpinisti austriaci che la storia ricordi, celebrato ancora oggi per le sue storiche scalate – sua la prima ascensione alla “montagna assassina” del Nanga Parbat (Pakistan) nel 1953 – e per la sua tragica scomparsa, avvenuta nel 1957 nell’abisso del ghiacciaio del Baltoro, sotto la vetta del Chogolisa.
Ma di questo eroe della montagna, che Kriemhild perse quando aveva solo cinque anni, si conosce molto poco. Se non l’amore per Generl, scalatrice provetta della cittadina tedesca di Berchtesgaden, scoppiato a prima vista quando i due erano quasi venticinquenni; l’interesse per la scrittura e per i racconti dei suoi viaggi; in parte, la nascita di tre figlie: la primogenita Kriemhild, Silvia e Ingrid.
Oggi, a 58 anni, Kriemhild Buhl ha deciso di raccontare la storia della sua famiglia in un libro, intitolato “Mio padre Hermann Buhl” e pubblicato in Italia a gennaio da CDA&Vivalda Editori, per ricordare il padre e per celebrare la tenacia della madre, che senza di lui ha guidato le figlie nel nome del suo amore.
Kriemhild, perché mettere per iscritto la sua storia personale?
«La decisione di raccontare la mia vita è una ricerca di tracce passate e un confronto con emozioni represse. Una sorta di auto-terapia, che mi ha liberata»
Chi era suo padre Hermann, per il mondo?
«Hermann Buhl, negli anni Cinquanta, era per tutti una rock- star, il Boris Becker della montagna, un eroe»
E chi era Hermann Buhl per la sua famiglia?
«Per la sua famiglia era il sole lucente, la stella maestra alla quale si tendeva. Sua moglie lo seguiva nei suoi appuntamenti, nei suoi progetti. La vita di lei e le sue necessità erano cose secondarie. Noi bambine eravamo piccoli satelliti, non dovevamo disturbarlo durante il giorno ma avremmo dovuto diventare come lui. Lo conoscevamo a malapena»
Nel suo libro, l’eroe non è suo padre, ma sua madre. Per quale motivo?
«Per me, in quanto figlia, l’eroina è naturalmente mia madre. Lei ha costruito da sola un’esistenza, grazie a un piccolo albergo ha guadagnato dei soldi, ha allevato da sola tre figlie superando tutti gli ostacoli. È stata una Mutter Courage, una Madre Coraggio, ogni giorno, per tanti anni. Ha fatto tanti sacrifici, ha avuto una vita difficile. Paragonato a lei, mio padre è stato bene, perché poteva realizzare i suoi sogni, quel che più desiderava: scalare; e l’ha fatto. E per questo è morto giovane, ma non ha dovuto sopportare la vecchiaia, la più grande sfida degli uomini. Mia madre adesso è sola e ha 83 anni»
Ha dei ricordi concreti di suo padre?
«Mi ha insegnato a suonare la chitarra, mi ha portato sulle sue spalle un paio di volte mentre salivamo ai rifugi alpini. Aveva una voce giovane ed era un bell’uomo. Uso una sua camicia che portava in montagna come camicia da notte e ne ho tanta cura, per averla con me tutta la vita»
Quali emozioni prova, quando pensa a suo padre e a sua madre?
«Quando penso a mio padre l’emozione che provo è empatia. Posso capire la sua fame di vita; sono contenta che lui abbia realizzato i suoi sogni e scalato gli ottomila metri. Sviluppare i propri obiettivi e inseguirli è il massimo di ciò che l’uomo può fare per se stesso, perché ciò lo rende felice. Prima, da ragazzina, provavo a volte rancore verso mio padre, perché aveva lasciato a mia madre un fardello come vita. A volte ero anche triste, perché avrei voluto avere più contatto con lui. Ma oggi penso che lui non avrebbe potuto fare diversamente. Quando aveva dovuto passare la sua vita in un ufficio era come in prigione, rendeva infelice la sua famiglia perché lui stesso era infelice. Per mia madre invece provo spesso compianto, ma anche gratitudine e ammirazione per il coraggio che ha avuto»
Cosa pensa dell’alpinismo?
«L’alpinismo estremo è, come qualsiasi cosa estrema, ricerca, nevrosi, compensazione. Quando un uomo ha bisogno di questa ansia estrema e deve mantenerla, per avere un controllo sulla vita e sulla morte, allora deve fare alpinismo estremo, il pilota di Formula Uno o canottaggio sul Niagara; perché no? Legittimo da capire, mi diverte di più di una pluridecennale psicoterapia. Ciò che è estremo non vuole una vita il più lunga possibile, né comoda»
Entrambi i suoi genitori amavamo l’alpinismo. A lei piace, anche se la montagna le ha portato via suo padre?
«Io sono una normalissima passeggiatrice. Mi piacciono le vette, in particolare i tragitti più facili, non quelli scoscesi o quelli sui quali si sta appesi eretti o legati a una corda. Le pareti a picco sono spaventose, infernali. E non ho neppure voglia di patire quel freddo che tormenta, le colonne di ghiaccio, le slavine. Amo le baite con i loro cibi semplici e la birra fresca. Per me camminare in montagna significa meditare. Deve essere riposante»
Suo padre resta un eroe che ha amato molto la sua famiglia. Ma ha secondo lei qualche colpa?
«No, mio padre non ha nessuna colpa. Ha detto a mia madre sin dall’inizio quali progetti aveva, cosa voleva raggiungere. Non ha mentito, né ha tolto nulla a nessuno. Il fatto che sia morto presto, non è colpa sua. È il destino. Si può morire giovani anche cadendo da un albero di ciliegie o attraversando i binari ferroviari»
Oggi che è una donna, cosa vorrebbe dire ai suoi genitori?
«A mio padre vorrei dire: “Spero tu sia stato spesso felice” e “Ti avrei voluto davvero conoscere meglio”. A mia madre vorrei dire: “Hai fatto tutto bene. Brava!”».

Giovanna B.

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