Appena il video fu diffuso su internet la stampa internazionale cercò di capire chi fosse quella donna, il cui nome era ormai urlato da tutti durante le proteste che continuavano per le strade della città. Il suo nome era Neda Agha-Soltan, aveva 26 anni e studiava alla Islamic Azad University di Teheran. La stessa università in cui un’altra Neda, Neda Soltani, lavorava come insegnante di inglese. La storia di Zahra Soltani, conosciuta da tutti come Neda Soltani, è la storia di una donna di 33 anni che per uno sfortunato caso di omonimia si è ritrovata simbolo involontario della protesta contro il regime di Ahmadinejad. E che per questo è stata costretta a fuggire dal proprio paese, lasciare la sua famiglia e il suo lavoro e vivere rifugiata in Germania. Il New York Times ne parla in un lungo articolo.
«Ero molto sorpresa», racconta «quando controllai la mia mail il 21 giugno trovai più di 60 richieste di amicizia su Facebook da persone di tutte il mondo». Nei giorni successivi il numero continuò a salire, Neda e sua madre non si rendevano conto finché non videro la sua foto in un servizio in televisione. Per tutto il mondo era lei la donna uccisa durante le proteste dal regime iraniano. Cercò di mettersi in contatto con i media per spiegare che c’era stato un errore, ma anche quando le foto della vera Neda iniziarono a circolare la sua foto continuava ad essere associata a quell’episodio. Il 24 giugno l’intelligence iraniana era già sulle sue tracce.
La polizia iraniana andò a prenderla a casa pochi giorni dopo per un primo interrogatorio. Le chiesero di dire davanti a una telecamera che era viva e che quel video era solo una montatura dei media occidentali. «Volevano usarmi per denunciare la morte di Neda, volevano sfruttare la mia visibilità in quel momento per dire al mondo che si trattava solo di una mezogna, che Neda era viva. Volevano anche che condannassi i cospiratori occidentali per quello che avevano cercato di fare». Al New York Times ha raccontato che alcuni degli uomini che l’hanno interrogata erano armati e che la minacciavano, «farai meglio a fare quello che ti chiediamo», le dicevano.
Alcuni giorni dopo tornarono di nuovo a prenderla a casa e di nuovo la interrogarono a lungo cercando di convincerla a confessare. «È molto comune che le autorità iraniane costringano qualcuno a fare una confessione falsa, per poi magari trasmetterla in tv o tenerla da parte come arma di ricatto», spiega. Il primo luglio la polizia la interrogò di nuovo: aveva saputo che si era rivolta ad alcune organizzazioni umanitarie internazionali per chiedere aiuto e l’accusava di essere una spia. Il giorno dopo decise di scappare.
«Avevo solo uno zaino, un computer e una borsetta», racconta. Rimase in Turchia per nove giorni, poi si spostò in Grecia e da lì in Germania, dove arrivò a metà luglio. Enrico Manthey, un portavoce dell’ufficio immigrazione tedesco ha detto che le autorità si convinsero subito della sua storia: il racconto di come venivano condotti gli interrogatori corrispondeva a molti altri racconti di persone che a loro volta erano state interrogate dalle autorità iraniane.
(Il Post.it)
a volte il giornalismo porta a situazioni spiacevoli,e diffondendo notizie false spesso ci si ritrova a "rovinare" la vita delle persone...e nel nostro paese di casi più o meno gravi di questo ce ne sono...
RispondiEliminaciò non toglie che questi metodi polizieschi siano da condannare,come del resto la situazione sociale che questo popolo vive.Ma dover emigrare per colpa di persone che attuano uno scambio di persona,nonostante le smentite...
di questa storia si sa ben poco. vero è che a volte i nomi, e non i gesti, fanno la differenza!
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