Verso la frontiera tra Messico e Stati Uniti sorge Ciudad Juarez, la città considerata la più pericolosa al mondo, roccaforte del traffico di uomini e droga in viaggio verso la patria a stelle e strisce, nonché teatro di uccisioni e sparizioni di giovani donne da più di una decina d’anni (un video d’inchiesta). Ma a parlare adesso, oltre ai parenti delle vittime che si sono organizzati nell’associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa, sono anche le madri dei futuri abitanti di Ciudad.
Lo fanno attraverso un video, "Educare Ciudad Juarez" girato dalla fondazione Omnilife e pubblicato su internet, per raccontare di quanto i loro figli abbiano bisogno di una buona educazione per crescere e cambiare, il minimo ma quanto manca. La nuova scuola elementare porta i bambini a socializzare e a sviluppare un senso di solidarietà e comunione. Valori che esportano anche agli adulti: “Imparano e poi ci insegnano cose che noi non sappiamo”, confessa una madre.
Associazioni di vario genere, in testa Amnesty International, continuano a chiedere di intervenire contro le violenze di Ciudad. Ma le notizie non si fermano. Questa mattina un articolo sul sito del Corriere della Sera parlava delle fotografie trasmesse dalla dogana statunitense per svelare i trucchi usati dalle gang, allo scopo di superare i controlli: immigrati “travestiti” da sedile, clandestini nascosti nel motore, droga infilata in nascondigli ingegnosi come pompe e idranti, fogli per rivestimenti, impasti da mattoni. Tanto che il presidente Obama ha assicurato che da ottobre, insieme alla Border Patrol, saranno schierati anche i soldati della Guardia nazionale.
Nella “città-inferno” (come scriveva La Stampa) di Ciudad Juarez si registra il più alto numero di omicidi nelle guerre ingaggiate dal governo di Felipe Calderon contro i narcos e dai diversi cartelli della droga fra di loro. Una serie di scontri, massacri e omicidi, dal 2006 a oggi, ha portato a 28 mila morti.
Non solo, l’Ansa riporta che a crescere è anche “la collusione tra le organizzazioni criminali e alcuni membri delle forze dell'ordine a libro paga dei narcos. Per ovviare alla corruzione della polizia, che pure ha pagato un alto tributo di sangue in questa guerra con quasi tremila caduti in tutto il Paese, il presidente Calderon ha messo in campo l'esercito, ma la situazione non accenna comunque a migliorare”. Lo dimostra la rivolta del 9 agosto, quando trecento agenti della polizia federale messicana hanno preso d'assalto il loro comando, a Ciudad Juarez, per chiedere la destituzione del comandante, considerato collegato ai cartelli della droga.
Madri, donne assassinate o scomparse, droga. Tutto a Ciudad si mescola. Dal 1993, la città è il maggiore cartello di narcotraffico della cocaina colombiana diretta negli Stati Uniti. E proprio nel 1993 è iniziata la serie di omicidi, rapimenti e violenze ai danni di donne giovanissime: 600 in questi diciassette anni, delle quali 460 ritrovate (le altre forse sono state sciolte per “lechada”, nell’acido). Sette vittime in ventiquattro ore solo all’inizio di agosto (le statistiche e i dettagli). Donne alla mercé delle 500 gang che spadroneggiano in città.
Molte di queste donne, operaie di fabbrica (maquilladoras) malpagate, hanno subito stupri e torture prima di essere barbaramente strangolate o accoltellate. Innumerevoli anche le denunce di scomparse e altissimo il grado di impunità per questi delitti. A causa della corruzione e dell’inefficienza di polizia e magistratura finora sono ben poche le condanne definitive. Restano aperte svariate ipotesi sui delitti: dal traffico d'organi ai rituali di una setta satanica, senza escludere il fenomeno dell'imitazione, e sembra probabile l'esistenza di uno o più serial killer (di recente l’arresto di un americano).
Sulla storia di Ciudad Juarez è stato girato un film interpretato da Jennifer Lopez, “Bordertown”. Victor Ronquillo ne ha fatto prima un reportage televisivo poi un libro, “L’inferno di Ciudad Juárez. La strage di centinaia di donne al confine Messico-Usa” (B.C. Dalai Editore). Amnesty International ha cercato la sensibilizzazione tramite cartoline.
Già nel 2007, sul sito de Il paese delle donne, si leggeva:
“Polizia, magistratura, governo locale e federale minimizzano il numero di omicidi e anzi indicano nelle vittime le vere responsabili che passeggiavano in luoghi bui e indossavano minigonne o altre mises provocanti… Alla fine del 1999, alcuni cadaveri di donne e bambine furono ritrovati vicino ai ranch di proprietà di trafficanti di cocaina. Tale coincidenza sembrava stabilire un legame tra gli omicidi e la mafia del narcotraffico, a sua volta legata alla polizia e ai militari, ma le autorità rifiutarono di seguire questa pista preferendo piuttosto incolpare consapevolmente degli innocenti, tanto per placare un po’ l’opinione pubblica”.
Gli ultimi sette omicidi, in ventiquattro ore, allungano la lista delle vittime di quello che i parenti chiamano “femicidio”. La rete, che conserva fatti datati e recenti, continua a mobilitarsi: su Facebook da meno di un anno è stato attivato il gruppo “Chiediamo Giustizia per le donne e le bambine di Ciudad Juarez”. Emblematico il commento di Ilaria, una dei membri:
"La cosa più grave è che di questa terribile verità nessuno vuole parlare... Se non fosse stato per il film, in Italia, la conoscerebbero in pochi...”.
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