venerdì 28 maggio 2010

Biella vuole la sua provincia. E i biellesi?


Un territorio di 913 chilometri quadrati, che comprende 82 comuni e un bacino di poco più di 187mila abitanti. Quella di Biella è la provincia più piccola del Piemonte. La storia la tramanda anche come la più ricca, eppure questo bacino tessile d’eccellenza potrebbe venire spogliato proprio del titolo di “provincia”. Titolo che per molti ha rappresentato una conquista: la Provincia di Biella è stata istituita infatti nel 1992, per scorporo dalla provincia di Vercelli, ma è diventata amministrativamente operativa solo nel 1995.

Tutto, adesso, potrebbe tornare come prima, all’indomani dell’approvazione del pacchetto economico (avvenuta “con riserva”) da parte del Governo. In programma non c’è soltanto una sforbiciata ai finanziamenti per gli enti pubblici pari a un miliardo di euro in due anni; di mezzo ci andranno anche le province “inutili” che hanno meno di 220mila abitanti e per questo dovranno probabilmente uscire di scena.

La notizia è su tutti i giornali, nazionali e locali. Nei bar del centro di Biella gli abitué e gli avventori più frettolosi hanno dato una sbirciata alle notizie, ma non sembrano troppo stupiti e neppure amareggiati: “Guardi, io sono per metà biellese e per metà vercellese, se torniamo sotto Vercelli sono anche più contenta” – la signora Silvia la prende con ironia “Ne parlavo proprio oggi con una amica di Domodossola. Domodossola è sotto Verbania, ma una volta era in provincia di Novara: quel rimescolamento è stato solo una seccatura, perché Novara è più comoda da raggiungere. A Domodossola tornerebbero sotto Novara, ma la provincia di Verbania non sarà cancellata perché confina con uno Stato estero”. Le fa eco il marito: “Sentiamo da tempo ripetere che Biella, Vercelli, Novara e Verbano Cusio Ossola potrebbero formare una sola macro-provincia, che problema c’è? Certo, si dovrà pensare a piccoli distaccamenti e uffici per evitare troppi spostamenti nel nuovo capoluogo”.


Già, il nuovo capoluogo di provincia: Vercelli o Novara? Alexandra, laureata in Economia, ribalta la domanda: “E perché non Biella? Per anni siamo stati sotto Vercelli, vengano i vercellesi nella ridente Bugella (Bugella civitas, nome dato alla fondazione della città). Non ci sono soldi e la provincia assorbe i fondi ma non dà servizi, la cancellazione va fatta a favore dei Comuni, che sono gli enti più vicini ai cittadini. Non sa quanti si sono presentati al mio seggio, alle ultime elezioni provinciali, chiedendo di verbalizzare il rifiuto della scheda gialla, come protesta contro le province”. Gianluca, 27 anni, la pensa allo stesso modo, ma è titubante su una questione: “Come verranno riassorbiti i lavoratori impiegati in Provincia?”. Matteo, vigile del fuoco, punta sui servizi: “Un esempio. Il Comando provinciale sparirà e rimarrà solo un distaccamento permanente, con tutto ciò che questo comporta. Il 115 risponderà da Vercelli con personale che non avrà la minima idea della morfologia del Biellese e questo comporterà un allungamento dei tempi d’intervento. Chi ci rimette? I cittadini. La provincia di Vercelli poi ha meno abitanti di quella di Biella, per pochi metri al confine con la Svizzera si salva”.

Dai bar del centro all’Ex Ospizio di Carità, sede del Palazzo della Provincia, la prospettiva cambia. Il presidente Roberto Simonetti, esponente della Lega e deputato, non si sbilancia e dice di voler leggere attentamente il provvedimento prima di parlare. Auspica a un dibattito parlamentare: “Penso che Biella si farà portavoce, insieme al presidente della Regione Piemonte Roberto Cota, di un progetto per una definizione moderna del territorio”. Progetto al momento non definibile.

Ma per quale motivo, dopo 15 anni, molti biellesi non salverebbero la Provincia? Abbiamo chiesto un parere al giornalista Marco Berchi, uno dei direttori storici del bisettimanale locale Il Biellese, che seguì da vicino la nascita della Provincia di Biella: “Quel processo politico e amministrativo è stato lunghissimo, parte almeno dagli anni Sessanta. La provincia è nata dalla diffusa volontà di affermare la specifica identità economica e culturale del Biellese. Identità tutta industriale, legata al tessile soprattutto, e ben distinta da quella agricola di Vercelli. Quindi, nel caso di Biella si va al di là dell’istituzione-provincia, del contenuto reale. Il vero motore è stato alimentato dalla convinzione, motivata nei fatti, della classe dirigente che, fin dal dopoguerra e negli anni Sessanta e Ottanta, contava sulla propria autosufficienza. Biella era una “isola felice”, con un tasso di disoccupazione del 2 per cento rispetto al 15 per cento nazionale, e si apriva al mondo solo per esportare le sue stoffe”.

Isola felice fino alla crisi economica di questi anni: il ruolo della Provincia, di per sé non troppo allargato, finisce con l’essere percepito dai pragmatici biellesi come un peso.

Giovanna Boglietti (http://www.futura.unito.it/)

martedì 25 maggio 2010

Mrs O. e il look della democrazia



We are excited to announce the forthcoming publication of "Mrs. O: The Face of Fashion Democracy". The book will be available in book stores in late October 2009.

Da ottobre è un libro, ma in principio fu internet. Sul blog americano Mrs.O, dedicato a Michelle Obama, ci si chiede: che cosa la first lady indossa e a chi si rivolge? Domanda che ha riempito pagine e pagine di quotidiani e periodici, prima e dopo l'elezione del marito Barack alla presidenza degli Stati Uniti d'America. Il blog , da due anni, è oramai diventato il sito prediletto da cui estrarre spunti di una tendenza modaiola definita "democratica".

The much anticipated state dinner festivities have begun! The president and first lady welcomed Mexican President Felipe Calderon and First Lady Margarita Zavala to the White House with an outdoor arrival ceremony earlier today. First Lady Mrs. O dressed in a classic raspberry coat and dress (confirming designer), paired with a statement bib necklace and black pewter heels. The turquoise and orange flecks of color in the necklace certainly pop against the pink dress - gorgeous!

All’incontro con il presidente messicano Felipe Calderon e la moglie Margarita Zavala, l’occhio del blog è caduta sulla vestito color fragola, lungo fino ginocchio, e le scarpe di vernice nera indossate da Michelle Obama. Non solo: i lapislazzuli della collana, in contrasto sul collo presidenziale, che fanno “pop” diventano “gorgeous”, sgargianti quanto stupendi.

Il commento più recente ripropone l’ultimo abito indossato da Michelle Obama, blu elettrico con cintura diamantata a vita alta, con una sola spallina. Abito che indosso a Mrs O. scatena l’ammirazione del suo creatore, lo stilista americano Peter Soronen. Our first lady has never looked better. What a moment!

La O.chat è gettonatissima. Il pubblico interagisce per dividersi le nuove tendenze griffate "Michelle". Scrive Terri: "Qualcuno conosce il marchio della borsa che Michelle Obama aveva alcune settimane fa con sè, a New York? E' la stessa che ha usato ai funerali di Mrs Bidden".

Ma non è solo Michelle a interessare le americane di ogni età. Non si risparmia, come presumibile, nemmeno Barack: "Possiamo aggiungere qualcosa sul presidente e la sua performance a basket e golf. E perchè no, sui suoi splendidi abiti e sulle sue cravatte e i suoi bassi (o detti impopolari) abbinamenti". Ma Barack è il presidente O., nei suoi errori di stile resta perfetto. Allo stesso modo, tutto quello che la first fa sembra essere "cool". Un esempio, il White House Veggie Garden: "O i peri erano così alti! Più alti dei miei...".

Il resto è chiacchiera, si va dal fitness alle dieta alle gravidanze. Il mondo "democratico" americano che parla di donne si racchiude in un blog dedicato alla prima donna d'America.

Che dire, di fronte a tanto interesse per l'armadio della donna più potente, ma che cerca di mantenere il profilo più basso del mondo? Forse, anche lei sarà una lettrice affezionata. Follie di blogger, follie tutte femminili.

Giovanna Boglietti

venerdì 21 maggio 2010

La Busi lascia il video: cade l'ultima roccaforte.

Sembra quasi di vederle così, Lilli Gruber e Maria Luisa Busi, strette in un abbraccio che oltre all'affetto oggi esprimerebbe solidarietà professionale. Loro, i due volti storici del Tg1, hanno lasciato il video in tempi e modi diversi. Ma tant'è, cambia un'epoca e qualcuno si chiede: che aria si respirava quando Lilli Gruber lasciò la conduzione del telegiornale delle rete ammiraglia per dedicarsi prima all'attività di europarlamentare a Strasburgo e poi al programma storico di Giuliano Ferrara, 8 1/2? E che aria si respira oggi nella stessa redazione romana di viale Mazzini, ora che Maria Luisa Busi lancia questa rivendicazione? Cosa si saranno mai dette le due conduttrici, una delle ultime volte che si parlarono come colleghe impiegate nella stessa azienda? Cambiano i direttori, ma non cambia evidentemente l'impatto politico che si sta diffondendo, come già insegnato dal monopolio democristiano, tra i mezzi di comunicazione. Eppure per i giornalisti della Rai, adesso sembra essere venuto il momento di prendere posizione (Ferrario e Di Giannantonio), di non firmare petizioni pro -editoriali di Augusto Minzolini, di scegliere di non prestare i propri occhi a notizie che la propria voce, evidentemente, vorrebbe tacere.

Giovanna Boglietti (foto Pizzi)


Maria Luisa Busi rinuncia alla conduzione del Tg1. Lo scrive lei stessa in una lettera che - a quanto si apprende - ha affisso stamattina nella bacheca della redazione. Tre cartelle e mezzo per spiegare che non si riconosce più nella testata, e per dire che come un giornalista ha come unico strumento per decidere di difendere le sue prerogative professionali, ovvero togliere la propria firma, un conduttore può solo togliere la sua faccia. Così ha deciso di fare lei e abbandona la conduzione del Tg1 delle 20. La decisione arriva dopo una serie di scontri con il direttore della testata Augusto Minzolini.


(da RaiNews 24)

giovedì 20 maggio 2010

La migliore imprenditrice immigrata dell'anno coltiva spezie a Moncalieri

Non vede l’ora di tornare dai suoi quattro bambini, Edith Jaomazava. Il suo pensiero corre al più piccolo, che in questi giorni è malato e chiede di lei. Edith è una mamma, ma non solo: è lei la vincitrice del MoneyGram Award 2010, il Premio per l’Imprenditore Immigrato dell’anno.

La cerimonia di consegna è appena finita e con la voce emozionata chiede: “A Torino è già arrivata la notizia? Che vergogna!”. A Moncalieri, dove vive, la aspettano parenti e amici, ma dice che lì ancora nessuno sa del suo successo, vuole che resti una sorpresa per quando sarà di ritorno. Presto, prestissimo, perché – continua a ripetere – i suoi bambini la aspettano.

Attorno a lei c’è un vociare continuo. Telefono alla mano, si aggira ridendo alla Casa del Cinema di Villa Borghese, a Roma, sfondo della premiazione, dove ha sede fra l’altro la MoneyGram, la società che ha indetto il premio ed è tra le più conosciute per trasferimenti internazionali di denaro, con 198 mila agenti in 191 Paesi del mondo.

Il Paese di Edith Jaomazava, prima dell’Italia, è stato il Madagascar. In Italia Edith ha fondato nel 2004 la SA.VA, per lanciare la vaniglia e le spezie tipiche della sua patria, nel mondo (Germania, Francia, Spagna e Svizzera). Vendite di questo tipo nel settore dell’import- export restano innovative; quelle della SA.VA, nel 2009, hanno registrato una crescita di più del 62 per cento: “Dal 2004 ad oggi siamo passati da un solo prodotto a venti e credo che, a settembre, arriveremo a 25 prodotti. L’azienda costa tanti sacrifici, soprattutto per quella parte della famiglia che vive con me a Moncalieri, visto che non sono mai a casa; eppure, quando sono arrivata in Italia ho deciso di non accontentarmi di un lavoro qualsiasi. Avevo una famiglia numerosa, ma ero una straniera con dignità. Così, avendo già un commercio di spezie e vaniglia burbon avviato in Madagascar, ho colto l’occasione per allargare la mia attività”.

E c’è riuscita, tanto che la giuria della MoneyGram non ha avuto dubbi a nominarla vincitrice. Racconta Katia Romano della MoneyGram: “Edith ha saputo sviluppare una azienda attraverso ciò che di buono ha la sua terra. Non solo: ha riportato in Italia un commercio caduto in disuso, tanto che, la sua, non è la solita vaniglia sintetica, ma un prodotto naturale e di qualità. E ancora, Edith dà lavoro in Madagascar a ben 300 persone e proprio a questi lavoratori lei porterà il premio vinto. Insomma, rientra nella categorie che riteniamo importanti: crescita dell’azienda, indotto occupazionale, innovazione, responsabilità sociale e imprenditoria giovane visto che ha solo 40 anni”.

L’imprenditoria di immigrati in Italia è agevolata dalla determinazione dei singoli, quella femminile poi è ancora più sorprendente, secondo Katia Romano: “Tra il centinaio di candidature ricevute, la metà erano di donne, questo è un buon segno. Ma è anche importante un altro dato: i candidati provenivano da tutto il mondo, dall’America latina all’Africa all’Europa. Si dedicano a un ventaglio vastissimo di settori (agricolo, alimentare, commerciale, solidale) e per lo più si sono inseriti nel Nord Ovest e al Centro, vicino a Roma. In pratica, dove è maggiore l’immigrazione, verso la capitale e in Lombardia attorno a Milano, tanto è possibile sviluppare realtà imprenditoriali convincenti”.

A proposito di integrazione, Romano racconta di storie altrettanto variegate: “Gli imprenditori arrivano spesso da clandestini, ma sono molto solidali gli uni con gli altri e così entrano nel circuito lavorativo; poi alcuni dei più bravi riescono ad affrancarsi e a sviluppare una idea: “La difficoltà è all’inizio, perché si sentono soli. Le istituzioni poi sono un ostacolo, tra permessi di soggiorno e autorizzazioni. Gli italiani, almeno nel caso dei nostri imprenditori, non sono razzisti, anzi li hanno accolti bene. Ricordo la storia della vincitrice del Premio Innovazione 2009: lei, ha vinto per una attività aperta grazie all’affetto di una vicina di casa italiana che credeva in lei e che le ha prestato 5mila euro”.

mercoledì 19 maggio 2010

Antonella Clerici, "Aspettando te"

Bella, anzi bellissima. Antonella Clerici dal vivo sembra fatta di porcellana: pelle di velluto, capelli come fili d'oro, occhi dalla profondità imbarazzante, impossibile reggere al suo sguardo cristallino. In fondo, è l'Antonella che tutti conoscono, quella che annuncia il suo ritorno alla Prova del Cuoco, previsto per settembre. Ma è anche una Antonella sconosciuta, quella che racconta di sè al Salone del Libro di Torino. Lei, bella famosa e finalmente mamma di Maelle, ha sofferto molto. Prima per un aborto spontaneo, che lei ha nascosto dietro al sorriso, poi per la crisi con il compagno Edy Martens, oggi risolta, e in concomitanza con il pensiero che la sua bambina, quella che dopo punture alla pancia e cure ormonali intensissime è arrivata a lei come un dono, fosse sana e forte. A 46 anni Antonella Clerici incoraggia tutte a "darsi da fare, a fare figli presto ma a non dimenticare il proprio lavoro e le proprie aspirazioni, pur con i dovuti sacrifici". Inutile dirlo, Antonella Clerici ci piace!

martedì 18 maggio 2010

Ballata delle Donne - il ricordo di Sanguineti


Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.

Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.

Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.

Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.

Femmina penso, se penso l'umano
la mia compagna, ti prendo per mano.

Edoardo Sanguineti

Imperia: storia di un poncho.

La copertina è di quelle colorate, spesse e ruvide. Uno di quei tessuti con cui ci si fa il poncho, animati da decorazioni che ricordano i lama e le Ande. Un cotonaccio grezzo che, sotto la pioggia, si è inzuppato di gocce e ha pesato sul suo corpicino intirizzito. Ma è stata proprio quella copertina ad attirare l’attenzione di un passante. Sotto quel tessuto, che se fosse un poncho sarebbe stato impermeabile, sta una bambina di otto mesi, dimenticata in una carrozzina, al bordo di una strada.
Quel passante l’ha trovata così, abbandonata, semi-assiderata dal freddo nel buio, avvolta dall’umidità per ore, da mezzanotte alle tre del mattino. Gli basta sollevare la copertina per capire che c’è bisogno dei soccorsi. Chiama la Croce Rossa poi il 113, e aspetta. Guarda la piccola tremare, non lascia la carrozzina, si chiede dove siano i genitori, chi l’abbia lasciata così, sotto la pioggia. Sono minuti concitati.
I soccorsi arrivano in fretta e quel passante tira un sospiro di sollievo. Non sa che qualcun altro ha allertato la polizia, per trovare la bambina. Ma è lui che le ha salvato la vita, le sta vicino mentre viene caricata con la coperta umida e la carrozzina sull’ambulanza, diretta in ospedale. Si salverà, deve aver sperato; ma non deve averlo lasciato il pensiero rivolto a chi l’ha messa al mondo e poi buttata in un angolo, e dimenticata.
Quel qualcuno, immagina, viene dalle Ande; lo racconta la coperta che assomiglia a un poncho. E infatti la polizia ha appena ricevuto la segnalazione di scomparsa da parte di due peruviani. Lei ha 33 anni, lui ne ha 39; entrambi sono badanti, accudiscono qualcuno che non è la loro bambina. Sono corsi in Questura perché non trovano più la figlia. Si è volatilizzata, dicono, non si spiegano come, né dove. Gli agenti li interrogano per sapere cosa sia successo, li fanno sedere, ascoltano le parole di due genitori ubriacati. Sì, perché i due badanti hanno alzato il gomito.
La madre, nel pomeriggio, si è allontanata con la carrozzina per andare ai giardini pubblici, il punto di ritrovo con i suoi amici e connazionali. Lì, però, non si gioca, non ci sono altalene. C’è il Pisco sour, la bevanda peruviana a base di brandy e uva; non manca la birra, forse c’è anche il vino. I giri di bicchiere portano alle nove di sera passate, quando arriva il padre e si unisce alla baldoria; poi, prende la carrozzina e la porta lontano. La mamma torna a casa, sicura che la piccola sia con il marito e si prepara per andare a dormire. Il marito torna, ma è solo. La testa e gli occhi si fanno allora leggeri per la sorpresa, i due escono, ripercorrono strade e frugano negli angoli; poi, arrivano in Questura, l’ultima spiaggia, e raccontano la storia, ubriachi. Mentre parlavano squilla il telefono: è il passante che ha notato la copertina colorata; dice che è urgente, che la piccola è semi-assiderata. Da quel telefono, che sta sotto gli occhi arrossati dei due peruviani spaventati, parte la chiamata di allerta ai servizi sociali e al tribunale dei Minori: risponderanno di abbandono di minore. Non l’hanno abbandonata, ripetono stanchi. Eppure al loro posto, c’è quel passante adesso. Dall’altro capo del filo, tiene sollevata la coperta di cotonaccio e guarda la loro figlia tremare.

Giovanna Boglietti

(La Stampa on line: articolo)

domenica 16 maggio 2010

Salone del Libro, Torino 2010: giorno quarto.

Linus, professione corridore
Domenica 16 Maggio 2010 16:53

Le affezionate scarpe da ginnastica ai piedi, Linus arriva correndo. È lui l’ospite dell’incontro La memoria della radio. Lo accoglie Fabio Giudice, giornalista e conduttore radiofonico. Linus, voce storica delle frequenze radio d’Italia, si presenta, scherzando, come un corridore di professione, che ha scoperto la passione per la maratona da dieci anni.

Oscar Wilde diceva che i fiori marciscono in fretta – inizia Giudice – Premesso che sono stati inventati i podcast, che rapporto ha la radio con la memoria, tema del Salone di quest’anno?”. Linus prima risponde serio, poi si concede una battuta: “La radio è come un’onda che prende e riporta quel che raccoglie sul bagnasciuga. Io vivo la memoria come parte integrante del mio lavoro, quando non si trasmette mi manca e nel mio quotidiano memorizzo tutto ciò che vedo e che mi capita, per trovare l’ispirazione. Sono poetico oggi, come Mourinho. Ieri tra l’altro sono stato allo stadio a vedere la Juve e, preso dallo sconforto, sono scappato prima del secondo tempo. Poco fa una ragazza mi dice di essere tifosa del Toro e io mi sono ridotto a dirle: beata te!”.

Linus procede di battuta in battuta. Ma come fa a mantenere il sorriso in radio, anche quando è triste o preoccupato? “Per il 50 per cento è mestiere, l’altra metà è l’affiatamento con il mio gruppo, con cui passo tutta la giornata – spiega il dj – Dover riflettere sulle notizie del giorno e pensare ai programmi permette di resettare i pensieri; in diretta poi cado in trance, parlo e penso già a quel che dirò dopo”.

Forma e sostanza come si conciliano in radio? “La forma delle radio è cambiata – continua Linus Radio Deejay propone un genere aggressivo e invasivo, che ha fatto della musica la colonna sonora per l’intrattenimento. I nostri conduttori non devono essere dj e sono magari meno esperti di musica, ma non si chiede questo alla Pina o al Trio Medusa. La missione è intrattenere, parlare, avere idee”.

Radio Deejay ha rivoluzionato la conduzione, con presentatori in coppia, ma Linus ammette che i libri in radio non incontrano l’apprezzamento del pubblico. Una ragazza si dice “delusa” di questa scarsa attenzione alla letteratura. Linus risponde: “I nostri 5 milioni di ascoltatori chiedono intrattenimento, questo è il nostro scopo. Una volta me ne occupavo con Daria Bignardi, poi lei non ha più continuato ed non abbiamo trovato nessun altro in grado di trattare l’argomento in modo adatto al mezzo radiofonico”.

Linus ama i libri? “Leggo alla sera, anche se ho poco tempo. Riesco a finire uno o due romanzi al mese. Ci provo coi miei figli, ma è molto difficile invogliarli a lasciare i videogiochi. Però ho scritto tre libri e l’ultimo, E qualcosa rimane (Mondadori), è uscito due anni fa: è stato un lavoro molto intenso, sono orgoglioso di quel romanzo”.

Arena Bookstock, ore 13, domenica 16 maggio 2010

Giovanna Boglietti

Salone del Libro, Torino 2010: giorno terzo.

Picozzi e Avoledo, oltre il silenzio degli indizi

Sabato 15 Maggio 2010 23:17

Ridare voce a un corpo senza vita e riuscire a far parlare la scena di un delitto. È questa l’abilità di Massimo Picozzi e Tullio Avoledo. Se ne discute nel corso dell’incontro La memoria vista di lato. La memorie delle cose, coordinato da Fabrizio Vespa, dj e direttore artistico torinese.

I nomi di Picozzi e Avoledo sono spesso affiancati a crimini e cadaveri, ma con scopi e modi del tutto diversi. Picozzi è psichiatra e criminologo, cura libri e programmi incentrati su fatti di sangue e serial killer, ha lavorato per la trasmissione Linea d’ombra e veste ancora i panni di consulente e ospite fisso per Chi l’ha visto. Avoledo, invece, è scrittore di professione e autore di romanzi di successo, tra i quali Tre sono le cose misteriose (2005), grazie al quale ha vinto il Premio Grinzane Cavour 2006. Il suo ultimo lavoro, pubblicato nel novembre del 2009, si intitola L’anno dei dodici inverni (Einaudi), una storia d’amore e di viaggi nel tempo.

Come suggerisce Vespa, Avoledo ha studiato i lavori di Picozzi per scrivere le sue opere: “Da persona che ha orrore del sangue e del fango, cerco di interpretare e di trarre indizi da cose che non possono più parlare. Per fare questo, unisco le nozioni che mi fornisce la criminologia alla narrativa”.

Narrativa e regia trattano spesso crimini e omicidi. Picozzi, da esperto, ne restringe l’attendibilità ma non li disdegna: “Anzi, sono un estimatore di gialli, noir o serie televisive come Csi Miami, per la quale ho seguito la stesura dei copioni. Le serie hanno sempre consulenti esperti dietro le quinte. Eppure noto che in Csi lavorano su un solo caso per volta o che il grande scrittore John Grisham ha l’abitudine di fare accendere una torcia ai suoi personaggi quando arrivano sulla scena del delitto; la scientifica, invece, di solito si limita ad accendere la luce”.

Qui sta il bello della scrittura, secondo Avoledo: “Uno scrittore può fornire tante versioni di un delitto e può capitare che nessuna delle versioni si avvicini alla realtà. Ma l’obiettivo di un romanzo non è quello di arrivare al finale corretto, piuttosto raccontare come si arriva a quel finale. In Tre sono le cose misteriose, per esempio, ho voluto rendere la fatica della raccolta degli indizi, perché lì sta la risoluzione di un caso. Il bello sta proprio nelle potenzialità della scienza, cha allarga la conoscenza e consente di interpretare il silenzio dei fatti. Autopsie e scanner sui corpi: questo mi affascina della scienza”.

E questo – sottolinea Vespa – è il motivo per il quale libri e programmi incentrati su crimini e delitti raccolgono il favore del pubblico. “Se ne parla molto; eppure i delitti in Italia stanno diminuendo. Dai 1.800 casi degli ultimi anni si è passati a 600 casi. Csi ha lo stesso fascino di Sherlock Holmes o di Conan Doyle, però, rispetto a questi due esempi, sono aumentati i delitti senza movente classico (drive and shoot: guida e spara, è il nuovo crimine giocoso tristemente nelle classifiche dei crimini in America) e che questi casi sono sempre più efferati. Ma non è tutto semplice: sulla scena di un crimine c’è una marea di dati e, allo stesso tempo, povertà di informazioni. Si prova a cercare le relazioni nascoste attraverso ragionamenti matematici. La lettura del Dna non crea problemi, anche se è difficile leggere la presenza di una persona nella vita della vittima (le tante tracce lasciate sono legittime se frequentava la vittima); ben altro è l’analisi psicologica delle persone, che non è mai univoca. Al di là dei mezzi scientifici, la gente si chiede sempre la stessa cosa: Amanda Knox, Anna Maria Franzoni, Raffaele Sollecito, Alberto Stasi hanno la faccia da criminali? Io rispondo che Sollecito e Stasi sembrano semplicemente i fratelli brutti di Harry Potter”.

Al dubbio sulla fisiognomica di Picozzi risponde anche Avoledo: “Vogliamo le facce perché il delitto risolto con metodi scientifici non soddisfa. Abbiamo bisogno dell’atto espiatorio, della sofferenza, delle lacrime, anche se a versarle è l’assassino”.

E la fascinazione della morte, che ruolo gioca? A Vespa rispondono entrambi. Prima Picozzi: “La gente accorre sul luogo dell’incidente, ma possiamo pensare anche solo alle nonne che si riuniscono al cimitero per dare del poveretto al defunto e al loro interno sono felici di essere le sopravvissute. Escono così le nostre zone oscure, laddove pensiamo non siamo toccati dalla morte. Lo conferma il poco successo di serie televisive come quella sui delitti bianchi basata sugli errori delle amministrazioni. Pensare che potrebbe capitare anche a noi, forse, di morire per una banale appendicite non ci piace”. Chiude Avaledo: “Una volta per tradizione in America c’erano la funeral house. Oggi non più e l’immagine della morte vicina è assai rara, per questo piace”.

Arena Bookstock, ore 14.30, sabato 15 maggio 2010

Giovanna Boglietti

sabato 15 maggio 2010

Sonia Gandhi: biografia non autorizzata


Sonia Gandhi si è trasformata in una donna indiana. Ma che ne è stato delle sue radici italiane? Alla domanda prova a rispondere Il sari rosso. La vera storia di Sonia Gandhi, l’ultimo lavoro dello scrittore e giornalista spagnolo Javier Moro. Il volume è stato presentato dall'autore al Salone del Libro di Torino. Con lui, erano presenti la scrittrice e giornalista Sandra Petrignani e l’esperto di India Michelguglielmo Torri, docente di storia moderna e contemporanea all’Università di Torino.



“Moro ha portato a termine il lavoro dopo una lunga ricerca – ha esordito Torri – L’opera è caratterizzata da precisione, dovizia di particolari e attendibilità storica”. Il libro si articola lungo gli anni di crescita di Sonia Maino, nota a tutti come Sonia Gandhi, che dal suo paese di origine – l’Italia – è arrivata in India per amore. E oggi è la terza donna più potente al mondo, secondo la rivista Forbes.



Il racconto di questa evoluzione passa direttamente attraverso le parole di Moro. Nata a Lusiana, in provincia di Vicenza, nel 1946, Sonia Maino si trasferisce con la famiglia a Orbassano, in provincia di Torino. Il padre Stefano (lo racconta nel libro uno dei testimoni, l’amico Danilo Quadra) da contadino si trasforma in muratore e piano piano apre una piccola impresa edile. Ragazza timida e riservata, Sonia si trasferisce in un college a Cambridge, per imparare l’inglese. Il 1965 è l’anno della svolta: lì conosce infatti Rajiv Gandhi, ancora studente ma rampollo della potente famiglia indiana Nehru-Gandhi, la dinastia iniziata dall’erede spirituale del Mahatma, Nehru, e proseguita con la figlia di Nehru, Indira Gandhi, primo ministro indiano.



Indira e Najiv, che succede alla madre, muoiono in due attentati uno dopo l’altra e Sonia, che come il marito ha sempre odiato la politica (lui era un pilota), decide di scendere in campo con il Partito del Congresso (Inc). La sua è una scelta che viene dalla lealtà verso l’uomo che amava e dal rispetto per la storia della sua famiglia.



Il matrimonio con Rajiv, contratto per vero amore (nel libro lo assicura l’amico che li fece conoscere, il tedesco Christian von Stieglitz), non trova l’appoggio del padre di Sonia, ma procede nella gioia e nella semplicità e si regge sul forte legame tra Sonia e Indira. Indira, Sonia e la figlia Priyanka: la continuità della dinastia al potere passa attraverso le donne, tutte sposate, tutte in sari rosso.



“Sonia piaceva a Indira e piace oggi perché è diventata una donna indiana: parla hindi, indossa il sari, trasmette spiritualità. Ha saputo rinunciare al potere senza secondi fini nel 2004, in favore di un primo ministro indiano, Manmohan Singh. E chi rinuncia al potere è divino, secondo la mentalità indiana”.



“Il libro di Moro tratteggia un ritratto di Sonia eccellente, anche troppo celebrativo, come gli ho detto dopo aver letto la prima stesura, in qualità di consulente storico – interviene Torri – Moro non ha mai incontrato Sonia Gandhi, se non una volta di sfuggita, ma Sonia ha parlato con lui quasi via lettera, attraverso i suoi avvocati. Dice di non apprezzare il contenuto del racconto, eppure è tutto vero. Un comportamento strano che attribuiamo o alla rimozione progressiva fatta da Sonia delle sue radici italiane o al timore che le origini semplici della sua famiglia intacchino l’immagine che in India si ha di lei. Cosa concepibile prima del 2004, quando il Partito del Congresso non aveva ancora vinto le lezioni nazionali; ma non adesso, che Sonia Gandhi è ancora più potente”.



L’autore Javier Moro dimostra di averla presa con filosofia: “Davvero strana la reazione di Sonia Gandhi. E pensare che non può aver scordato l’italiano, mangia pasta nel miglior ristorante di Nuova Delhi e viene in Italia a visitare i parenti. Se dovessi scrivere un epilogo alla sua storia lo intitolerei Delusione perché inaspettatamente mi sono ritrovato a pensare che anche gli animi più incorruttibili possono cambiare mentalità, solo per effetto del potere. Una donna che fa politica ma non la ama, che vuole e non vuole il potere, che è indiana ma in fondo italiana trasmette uno squilibrio di identità. Eppure, la sua India è il Paese delle diversità, è il Paese dei mille Paesi”.



Giovanna Boglietti

Salone del Libro, Torino 2010: giorno terzo.

La New York a cipolla di Lethem

Sabato 15 Maggio 2010 16:17

Chronic City, il suo ultimo romanzo, è uscito in Italia solo due settimane fa. L’autore statunitense, Jonathan Lethem, lo presenta con il critico letterario del Sole 24 Ore, Luigi Sampietro, nel corso dell’incontro Scrittori dal mondo.

“Chronic nel titolo si riferisce sia al tempo sia, in particolare, alla marjuana spacciata a New York, la città che fa da sfondo ai lavori di Lethem – spiega Sampietro – Non c’è nome di autore più legato a una città. Sappiamo che è impossibile conoscere New York a distanza ma per fortuna esistono scrittori che ne sanno descrivere strade, profumi, sapori. Di che cosa parla il libro? Non so dirlo, contiene di tutto. Sta fra romanzo e anatomia, perché l’autore descrive la città quasi come fosse un corpo”.

Per capire il romanzo, secondo Sampietro, si deve chiamare in causa ciò che Joshua Oakley chiamava “doors of perception”, spiragli della mente che permettono di avere visioni che vanno oltre la normalità. In Lethem questo accade attraverso il narratore gigione che si dice distratto, confuso e dedito alle canne: “Sono d’accordo: le doors of perception sono la chiave di lettura del mio romanzo – dice Lethem – La realtà che ho creato non è solo quella visibile,ma una dimensione complessa che non ha nulla a che vedere con la Grande Mela. La mia realtà è più una cipolla, che si sfoglia e nella quale sotto ogni strato si scopre qualcosa di diverso. Questa è la nostra esperienza soggettiva della realtà, che è anche limitata, è illusione”.

Dalla fantascienza (Concerto per archi e canguro, 1994, e Amnesia Moon, 1995) al giallo (Brooklyn senza madre, 2003); dalla commedia erotico-musicale (Non mi ami ancora, 2007) alla graphic novel (Omega ther unknown, 2008), Lethem sfugge a qualunque categorizzazione, come i suoi romanzi.

Realismo contro iperrealismo e descrizione fotografica della realtà: che cosa ne pensa Lethem? “Prima di tutto, realismo è un concetto difficile per me, perché la stessa idea di realtà è difficile. Per me il realismo è penetrare la realtà dal punto di vista commerciale, lavorare coi giornali, vivere una dimensione familiare, usare i digital-media. Non mi cimento in descrizioni filosofiche della realtà, quindi per me la descrizione è il solo metodo che ho per trasmettere un’idea. Questo so fare bene: fornire una osservazione e descrizione delle cose. Eppure tra la realtà macro e la micro di ogni giorno si insinua il virtuale. Si tratta di una fusione naturale ormai: interrompo tutto e mi collego a Facebook, sono una persona in carne e ossa ma che compra nello store digitale di E-Bay. La realtà a cipolla non ha un centro, una linea; quindi posso inserire tigri capaci di abbattere palazzi a New York”.

Questa fusione deriva da uno schema di costruzione del romanzo definito o anche solo sottinteso? Lethem risponde di no: “Il mio piano di lavoro è l’improvvisazione. Resta fondamentale il partire dalla fine, però; così le nozioni vengono a me senza bisogno di annotazioni, tutto appare nel progredire. La vita, le emozioni, l’anatomia della città: tutto si determina attraverso il motore dell’azione”. Chiudono l’incontro le curiosità di due lettori. Un ragazzo rivolge una domanda sull’uso della marjuana: “Si tratta di qualcosa sia reale che metaforico, perché nella mia mente tante persone sono inclini – spiega Lethem – Ma nel libro la marjuana ha un altro significato; è una sorta di indagine su una terra culturale da sondare. È anche l’esempio che qualsiasi cosa facciamo (uso di droga, Facebook, E-Bay, filosofeggiare o ascoltare la musica dei Rolling Stones) significa entrare e uscire simultaneamentre dalla realtà, come chi è sotto l’effetto degli ‘spinelli’ vede per 45 minuti tutto e poi cade nella confusione”.

L’ultima domanda viene da Giuliana Galvagno, una ragazza che in una libreria di Brooklyn, a New York, ha assistito all’ultima lettura pubblica del nuovo romanzo di Lethem. I personaggi confusi ritrovano la memoria attraverso la cultura pop, ma in che modo? Precisa Lethem: “Non amo il termine pop culture, direi più cultura popolare o commerciale. Il problema è che nella nostra cultura tutto dopo un po’ viene messo da parte: un film proiettato tante volte poi lo si dimentica. Eppure, qualcosa resta parte di noi, siamo noi. E per questo quel qualcosa va indagato”.

Sala Azzurra, ore 12, sabato 15 maggio 2010

Giovanna Boglietti


venerdì 14 maggio 2010

Salone del Libro, Torino 2010: giorno secondo.


14 maggio 2010: l'incontro con Alberto Bevilacqua. La mia casa è piena dei suoi libri, avvicinarlo è stato un po' come incontrare un uomo che per tanto tempo hai sognato e che ritrovi tuo, all'improvviso. Grazie Alberto, perchè sai accarezzare il cuore con le tue parole soffici!

giovedì 13 maggio 2010

Salone del Libro, Torino 2010: giorno primo.

Tra Terra Madre e un anno a impatto zero

Giovedì 13 Maggio 2010 17:55

Come salvare il pianeta? Basta partire da una vaschetta piena di terra e coltivare un ciuffo d’insalata o un pomodoro? Se ne parla in Storie di sviluppo sostenibile. Da Madre Terra a Impatto zero: è questo il titolo dell’incontro con Carlo Petrini e Colin Beavan, che dialogano in compagnia di Cristina Gabetti sul tema sempre attuale della sensibilità ambientale.

Apre il dibattito Gabetti, curatrice della rubrica eco-sostenile di Striscia la notizia: “Sono fiera di presentare i libri di questi due autori, date le mie origini piemontesi e newyorkesi. Terra Madre di Carlo Petrini, padre del movimento Slow Food, e Un Anno a impatto zero di Colin Beavan, scrittore americano e blogger, sono due lavori connessi, nei quali si parla di processi di produzione più umani e di un consumo a basso spreco. Ma se Slow Food parte dalla ricerca del piacere, l’esperienza di Beavan al piacere arriva come risultato finale”.

Colin Beavan ha vissuto infatti un anno dandosi letteralmente al risparmio e seguendo un ferreo programma di vita a impatto zero. Programma, al quale hanno aderito migliaia di persone su internet (noimpactproject.org) e che si articola in semplici punti: zero rifiuti, spostamenti che non implicano emissioni di CO2 (metro inclusa), cibo di qualità, rinuncia dell’energia elettrica, creazione di iniziative per la tutela ambientale.

“Se ripenso al mio esperimento, posso dire che oggi mi manca la calma e il tempo libero che ho ritrovato rinunciando ai passatempi americani per eccellenza, lo shopping e la televisione – ha detto Beavan – Oggi che viaggio per il mondo a darne testimonianza sono ritornato al ritmo frenetico tipico del consumismo e del modo di vivere legato al business, negli Stati Uniti come in Europa occidentale. Ho capito invece che è ora di rispettare la Terra perché è il nostro habitat e da lei dipendiamo. Non si deve considerare istituzioni o governi, ma se abbiamo una idea conviene agire”.

La storia di Beavan è stata spunto di riflessione per Carlo Petrini, che oltre a Slow Food – il movimento della calma per eccellenza – è anche il volto simbolo della rete internazionale Terra Madre (prossimo appuntamento ottobre 2010) che ha permesso di accorciare la filiera dalla produzione al consumo dei prodotti nel mondo: “Cultura alimentare significa conoscenza e sostenibilità del cibo, perché la produzione di cibo è la prima causa del disastro ambientale. Bastano i numeri: produciamo per 12 miliardi di persone e siamo solo in 7 miliardi, ma 1 miliardo di persone soffre di malnutrizione e ogni 6 secondi muore un bambino. In Italia invece buttiamo ogni giorno 4 mila tonnellate di cibo, 22 mila tonnellate negli Usa. Segno che lo spreco è parte del nostro vivere”.

Per Petrini è proprio l’abitudine al non spreco il vero piacere, perché non va considerato il basso prezzo, ma il valore intrinseco dei prodotti che arrivano sulla nostra tavola. L’insegnamento di Petrini coinvolge la platea: “Chi dei ragazzi presenti si dedicherà all’agricoltura? Solo due. Ragazzi venuti sul palco, siete i miei eroi. Sarà duro ma insistete per farvi rispettare. Ai vostri compagni invece chiedo adesso di aprire orti scolastici e riprendersi spazi verdi e in futuro di comprare ciò che produrrete, visto che da voi dipenderà il nostro Paese. Impariamo il rispetto dei contadini. Sarà il ritorno alla Terra”.

Arena Bookstock, ore 14, giovedì 13 maggio 2010

Giovanna Boglietti

lunedì 10 maggio 2010

E' femmina, è la tivù di genere. Si chiamerà La 5.


Storie di donne, biografie di femministe. Un programma per imparare a cucire, un film commovente da spezzare il cuore. Ancora non possiamo sapere cosa si nasconda dietro alla "Televisione in rosa"; probabilmente tutto ci sarà svelato da mercoledì 12 maggio, quando sarà resa nota la programmazione del nuovo canale digitale di Mediaset, La 5. Un canale free tutto dedicato alle donne, appunto, come aveva annunciato mesi fa Alessandro Salem, il direttore dei contenuti di RTI, che si rivolgerà a un pubblico femminile fra i 15 ed i 40 anni.

“La5 – aveva spiegato a suo tempo Salem, durante la Quinta Conferenza della TV Digitale Terrestre - non si limiterà a ritrasmettere i contenuti della rete ammiraglia Canale 5, ma avrà una programmazione che raccoglierà tutti i generi, organizzati e programmati per intercettare il target rosa. Dunque spazio a film e telefilm, ma anche a spin-off di grandi blockbuster come il Grande Fratello. E da settembre arriveranno le produzioni originali, fatte ad hoc per questa rete”.

Tra i testimonial di La5 spiccano alcune fra le figure femminili più note di Mediaset: Silvia Toffanin, Alessia Marcuzzi, le Veline, Geppi Gucciari. Tra di loro, un solo uomo, Marco Carta, scelto come volto di questo nuovo canale perché molto amato dalle ragazzine.

Le novità non sembrano finire qui: indiscrezioni da Cologno Monzese vorrebbero in arrivo una rete televisiva direttamente su Facebook, il social network con più di 16 milioni di italiani iscritti. Per ora, alla Telvisione in rosa è dedicata solo una pagina (e qualche spot video su Canale 5). Le reazioni che vi si leggono ,accompagnando a poche ore l'apertura del canale, sono tra le più disparate. C'è chi, tra le donne, si dice soddisfatta e scherza: "Finalmente una proposta televisiva che va incontro ai gusti delle ragazze", altre assicurano che dal Piemonte alla Sicilia la ricezione del canale è assicurata, ci sono anche uomini che aspettano l'ufficializzazione dei programmi.

Le critiche al momento opportuno. La prima domanda però sorge spontanea: c'è davvero bisogno di una proposta televisiva di genere, che separa gusti e proposte a seconda dei sessi? E la seconda domanda segue a ruota: Che tipo di programmi saranno proposti su La 5? Il rosa non è l'unico colore della femminilità, le donne sanno usare tavolozze ricche e piene di sfumature. Si occupano di famiglia, ma sono anche esperte di finanza. Scrivono poesie; eppure, firmano saggi di politica. Insomma sono donne, e molto di più.

Giovanna Boglietti


lunedì 3 maggio 2010

Passi affrettati, non oltre la prigione.


La protagonista della sua ultima raccolta di racconti, una bambina dalle gambe di gru, si vende all’uomo, ingegnere e padre di famiglia, sfuggendogli e facendosi rincorrere su un “pendio pietroso”.
La nuova raccolta firmata da Dacia Maraini, dopo “La ragazza di via Maqueba”, riprende la stessa immagine, quella della corsa a perdifiato. “Passi affrettati” è un piccolo libro, concitato come quelle mosse che hanno le donne in fuga da situazioni di violenza familiare o da discriminazioni, dalle persecuzioni di uomini o di clan che, “defraudati” del loro potere sul mondo femminile, reagiscono attaccandole. Brutte storie che si concludono male e che Dacia Maraini ha voluto scandire seguendo dieci vite femminili vere, raccolte con Amnesty International in giro per il mondo, dalla Cina alla Giordania, dalla Nigeria alla California, all’ Europa per denunciare sopraffazioni. I diritti del libro, prima pensato per il teatro e adesso edito dalla Ianieri Edizioni, verranno interamente devoluti a favore di associazioni che difendono le donne che hanno subito violenza. L’Occidente non è fuori pericolo, come assicura Dacia Maraini: «L’aumento è esponenziale in questi ultimi anni dal 2006 al 2009: sì, parlo proprio del numero di omicidi contro donne. Non mi sto riferendo a paesi sottosviluppati, parlo delle civilissime America e Europa».

"De-finire la violenza”, forum aperto dal Telefono Rosa di Torino, mette in luce il nervo scoperto che vuole il potere maschile come tutto naturale. Dei mille contributi analizzati, molti appartengono a uomini (41%) e di questi quasi il 20% è di età inferiore ai 18 anni. Violenza per l’11% degli uomini “inevitabile”: sorprende che a condividere questa idea sia quasi il 22% delle donne. Così, la violenza è “provocata” spesso, almeno secondo il 38% degli uomini (quasi l’8% per le donne). Per i maschi la spinta alla violenza viene dal sesso o da un raptus, mentre per le femmine le cause di violenza restano volontà di dominio e odio. I due generi concordano invece sulla tipologia di maltrattatore: per lo più persone sole, malati e sadici (stranieri, aggiungono gli uomini). Come soluzione alla violenza, prevale lo stigma sociale e l’isolamento, meno convincenti le terapie psicologiche. Non solo: come repressione verso lo stupro, uomini (20%) e donne (17%) si sentirebbero più tranquilli con uno stupratore a piede libero, purché castrato chimicamente. Idee non proprio attuali, che non aiutano a estirpare il fenomeno della violenza contro le donne.

Giovanna Boglietti


Da “Panorama.it”, Silvia Tomasi intervista Dacia Maraini:
Tutte le donne sono vittime? E gli uomini carnefici?
Non è una questione biologica, ma culturale. Mi rifiuto di pensare che il mondo sia diviso in due generi l’un contro l’altro armati. Non ho mai pensato a un mondo di donne che si oppone a un mondo di uomini. Sarebbe razzista. Penso a due culture: una attaccata ai privilegi, ai ruoli, che si sente insidiata e reagisce con la violenza - ma ci sono anche molte donne che ne fanno parte - e una aperta, generosa, che crede nel rispetto dell’altro da sé, in cui si trovano uomini e donne. Guerra di culture, non di sessi.


Ci stiamo trasformando in bestie? E da dove nasce questo degrado?
Un semplice esempio per l’Italia: la televisione dove c’è un utilizzo scaltro e volgare del corpo delle donne, dove si è imposto per le ragazze il modello veline. Certo poi ci sono donne con la testa, come Milena Gabanelli di Reporter e Camila Raznovich con i suoi Amori Criminali, ma viaggiando molto all’estero spesso i miei interlocutori mi chiedono del motivo di tante donne discinte in trasmissioni che non hanno nulla a che vedere con l’esposizione di quarti di carne. Non mi venga a dire che questa è libertà di “espressione”, ma proprio il suo contrario, è la cosificazione. Io non sono assolutamente contro il corpo femminile nudo, ma voglio che abbia testa e parola.

Non è possibile un dialogo corretto fra uomini e donne? Le donne partecipano di un paradosso. Sono la maggioranza nel mondo, ma appartengono alla minoranza, basta guardare al loro ruolo nell’ambito della famiglia, del lavoro o ancor più del denaro. Ma non sogno un mondo rovesciato. Voglio ribadire che sono le minoranze ad essere il sale delle “maggioranze” vere e presunte, ma non se vengono semplicemente schiacciate.

Com’è stato il rapporto con la cultura maschile nella sua vita?
Sono stata molto fortunata, ho avuto come compagni di strada uomini che rispettavano l’autonomia delle donne, da Alberto Moravia(con il quale fu a lungo unita) e Pier Paolo Pasolini. Ma già in famiglia: mio padre Fosco Maraini era un antropologo, un etnologo che in tempi non sospetti, già durante il fascismo, mi diceva: “Ricordati che le razze non esistono! Esistono le culture.” I miei genitori hanno rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò e per questo abbiamo trascorso due anni, rischiando di morire di fame, in un campo di concentramento in Giappone, dove abitavamo per gli studi e il lavoro di mio padre. Certo già bambina non sopportavo le ingiustizie e mi ricordo che a quattro o cinque anni mi sono allontanata da casa per uno schiaffo di mio padre che ritenevo immeritato. Mi hanno ritrovata dopo un intero pomeriggio. Ero presso la stazione di polizia che parlavo del fatto in dialetto giapponese.

Cosa pensa della situazione scandinava, dove ormai nascono campagne in difesa del maschio, prevaricato dall’universo femminile? Ripeto, sono per la cultura del rispetto e comunque difenderei, se maltrattati, i maschi.

Le donne sono state sottovalutate da tutte le religioni, dal Cristianesimo (basti pensare a San Paolo quando afferma la necessità che la donna sia sottomessa all’uomo), all’Islam. Come mai questa discriminazione? Il cristianesimo degli esordi era di donne: finalmente qualcuno diceva che anche loro avevano un’anima. La rivoluzione di Cristo è straordinaria. Poi si è istituzionalizzata. Ci sono delle donne monache, ma perché non “parroche”, “decane”? Così la parola delle origini si è persa.