martedì 28 aprile 2009

lunedì 27 aprile 2009

Spagna, aborto libero a 16 anni
Previsto nella nuova legge. Nelle prime 14 settimane interruzione senza alcun limite

(Il Corriere della Sera)




Persi un figlio. Che sconfitta è l'aborto. Si puo' volere la liberazione del proprio ventre da un intruso e si puo' volere che l'intruso rimanga, disperatamente rimanga con noi. (Dacia Maraini)




Questione di potere, non etica: chi è davvero contro l'aborto, deve difendere la legge Donne-oggetto: questa è cultura della vita?


di Dacia Maraini

Ogni giorno sento alla radio o leggo sui giornali la domanda fatidica: ma come mai le donne non reagiscono? Perché non dicono qualcosa di fronte alla invadenza della Chiesa che pretende di decidere sui loro corpi? Eppure le donne parlano, e scrivono anche, ma le loro voci faticano a farsi sentire. Io stessa ho ragionato varie volte a proposito dell`aborto, ma è come se non l`avessi mai fatto. Dispiace ripetermi ma, per non passare da reticente, ribadirò: l`aborto certo non è una soluzione, si tratta di una scelta brutale che porta ferite sul corpo della donna e danni a un progetto di vita. Ma proibirlo vuol dire mandarlo in clandestinità. Per questo è nata la legge. Che ha immediatamente fatto calare la percentuale del 40%.
Chi è veramente contro l`aborto dovrebbe essere contento: lo scopo è o non è abolire la pratica abortiva? Se una legge riesce a ridurla di tanto, non sarà una buona legge? Invece no, l`aborto viene preso a pretesto per una crociata politica e ideologica sul diritto alla vita. Le donne, ancora troppo spesso lasciate sole di fronte alla responsabilità riproduttiva, vengono criminalizzate, si cerca di togliere loro ogni libertà di decisione. Da lì si capisce che si tratta di una questione di potere. Il potere di controllo sulla procreazione.
Anch`io sono per arrivare a eliminare l`aborto e con me milioni di donne, ma non credo che la soluzione stia in una legge proibitiva. L`interruzione della gravidanza si può eliminare solo con una cultura della maternità responsabile. Dare alle donne la possibilità di scegliere prima, non dopo. Quindi puntare sulla consapevolezza, sul sesso sicuro, sulle pratiche anticoncezionali. Che invece sono proibite dalla Chiesa. È come se si intraprendesse una campagna contro le morti sul lavoro e nello stesso tempo si proibisse l`uso dei caschi, delle cinture di sicurezza, degli estintori e delle sirene di allarme.
La domanda «perché le donne non alzano la voce» ha in sé qualcosa di misogino. Chi la fa non ha orecchie per le proteste femminili e nello stesso tempo si chiede il perché di tanto silenzio. Un paradosso tipico di questa epoca di grida e di mutismi umilianti. Solo le grandi folle: centomila, duecentomila donne in piazza, solo quelle risultano, per costoro, visibili. Tutto ciò che non appare nei salotti televisivi o sulle prime pagine dei giornali, semplicemente non esiste.
Le televisioni d`altronde, salvo casi rarissimi, mettono in mostra un'Italia del tutto virtuale. Una Italia sognata da menti grossolane e ingenue, priva di consistenza e di verità. Una Italia di donne sempre svestite e di uomini vestitissimi, che passano il tempo a insultarsi, perdendo completamente di vista il paese. Una Italia in cui è premiato chi fa il prepotente, chi è ricco e chi grida di più.
Una Italia in cui il corpo femminile è usato per vendere qualsiasi merce, trasformandolo, nella immaginazione collettiva, in merce esso stesso: sono la tua arancia, sono la tua birra, sono la tua automobile, sono il tuo computer.
Assaggiami, prendimi, comprami! Sarebbe questa una cultura che rispetta la vita?

(Il Corriere della Sera, 15 febbraio 2008)

domenica 26 aprile 2009

Lilli Gruber (giornalista)


I capelli rossi raccolti nel classico chigon, tailleur nero ravvivato da una collana di perle e pietre verdeacqua, tacchi appena accennati. Dietro all'aspetto di Lilli Gruber si nasconde una donna di polso, piena di passioni; una donna che ha svolto il suo mestiere "tenendo sempre la schiena ritta", come tiene a precisare.
Lilli Gruber, prima conduttrice in Italia di un notiziario da prima serata e mezzobusto Rai più ammirato dagli italiani, è stata una degli ospiti accolti con maggiore calore dal pubblico torinese, in occasione della Biennale della Democrazia.
Conclusa in anticipo l'esperienza al Parlamento Europeo sotto la bandiera dell'Ulivo, Gruber ha ricordato agli ascoltatori il percorso che l'ha portata a Bruxelles e, da qualche mese, alla conduzione di "Otto e mezzo" su La7.
La sua è una riflessione aspra sulla situazione in cui versa l'informazione, televisiva in particolare, ai giorni nostri. Un'informazione sempre più controllata dai governi al potere e sempre meno approfondita.
"Ho lasciato la redazione del Tg1 nel 2004, perchè le pressioni che ricevevo come giornalista erano insopportabili" - ha spiegato - La mancanza di libertà di informazione stravolge prima di tutto, il mestiere stesso del giornalista, al quale viene impedito di lavorare. A farne le spese, poi, sono i telespettori".
Notizie filtrate, controllate, insabbiate. Lilli Gruber parla chiaramente della "differenza fra informazione e manipolazione" e della necessità di ridare valore alla notizia e alla gerarchia delle notizie, nazionali ed estere. Evitando la trappola dell'infotainement, intrattenimento e informazione, che non permette di scindere realtà e fiction.
"Il giornalista non è un combattente solo, in mezzo al deserto. Deve rispettare le scelte dei suoi superiori - ha aggiunto - Ma può mettere il telespettatore sull'avviso, può fare intendere che ci può essere un filtro poco imparziale alla notizia. E il pubblico deve essere preparato a mettere in discussione i mezzi d'informazione, deve armarsi di spirito critico".
Il pensiero strettamente personale che chiude la riflessione di Lilli Gruber va all'etica della donna e della giornalista: " La democrazia non è mai equipaggiata al meglio. Ma ognuno è padrone di se stesso, se ci mette la faccia nel suo mestiere gioca per sè. L'onestà è sempre riconosciuta".

Giovanna B.
Streghe. La riscossa delle donne d'Italia

Lilli Gruber

Libere di decidere del proprio corpo, capaci di mantenersi, brave ad amare ma anche a stare da sole. Così sono, o vorrebbero essere, le donne di oggi. Le loro simili, nel Cinquecento, venivano bruciate come streghe. E trent’anni fa hanno invaso le piazze d’Italia proprio al grido di “le streghe sono tornate” reclamando parità, divorzio, aborto. Oggi i roghi sono spenti per sempre, e sono sfumati gli echi dei cortei. Ma ci sono ancora diritti da chiedere.

Kriemhild Buhl (scrittrice)



Sono tra le mie montagne, nella casa della mia infanzia, alla quale è stato dato il nome di mio padre, ma che lui non ha mai visto. Sono già cinquant’anni che è morto e giace sotto la neve eterna delle sue montagne. Io non l’ho mai conosciuto veramente, lui, l’eroe dell’alpinismo negli anni Cinquanta. Nel soggiorno, a un paio di passi da me, dorme mia madre. Ha sopportato così tanti inverni, tanti senza aiuto, sola con le sue tre bambine sotto le ali. E adesso che è anziana e ha bisogno di me riconosco la sua grandezza. È lei il vero eroe della nostra famiglia.

(Kriemhild Buhl)


Presentazione del libro: Verbania, 25 giugno 2009.
Nessuno, se non di rado, ci ha mai fatto caso, ma i profili impervi delle montagne ricordano spesso i tratti dei visi delle persone care. Ci si ritrova il sorriso largo di una madre, il naso importante di un fratello, lo sguardo imbarazzato del primo amore. Per Kriemhild Buhl sfiorare con le dita la cresta di una montagna significa accarezzare il volto di un padre, che alla passione per l’alta quota consacrò la vita.
Kriemhild Buhl porta un cognome importante: il padre Hermann fu infatti uno dei più famosi alpinisti austriaci che la storia ricordi, celebrato ancora oggi per le sue storiche scalate – sua la prima ascensione alla “montagna assassina” del Nanga Parbat (Pakistan) nel 1953 – e per la sua tragica scomparsa, avvenuta nel 1957 nell’abisso del ghiacciaio del Baltoro, sotto la vetta del Chogolisa.
Ma di questo eroe della montagna, che Kriemhild perse quando aveva solo cinque anni, si conosce molto poco. Se non l’amore per Generl, scalatrice provetta della cittadina tedesca di Berchtesgaden, scoppiato a prima vista quando i due erano quasi venticinquenni; l’interesse per la scrittura e per i racconti dei suoi viaggi; in parte, la nascita di tre figlie: la primogenita Kriemhild, Silvia e Ingrid.
Oggi, a 58 anni, Kriemhild Buhl ha deciso di raccontare la storia della sua famiglia in un libro, intitolato “Mio padre Hermann Buhl” e pubblicato in Italia a gennaio da CDA&Vivalda Editori, per ricordare il padre e per celebrare la tenacia della madre, che senza di lui ha guidato le figlie nel nome del suo amore.
Kriemhild, perché mettere per iscritto la sua storia personale?
«La decisione di raccontare la mia vita è una ricerca di tracce passate e un confronto con emozioni represse. Una sorta di auto-terapia, che mi ha liberata»
Chi era suo padre Hermann, per il mondo?
«Hermann Buhl, negli anni Cinquanta, era per tutti una rock- star, il Boris Becker della montagna, un eroe»
E chi era Hermann Buhl per la sua famiglia?
«Per la sua famiglia era il sole lucente, la stella maestra alla quale si tendeva. Sua moglie lo seguiva nei suoi appuntamenti, nei suoi progetti. La vita di lei e le sue necessità erano cose secondarie. Noi bambine eravamo piccoli satelliti, non dovevamo disturbarlo durante il giorno ma avremmo dovuto diventare come lui. Lo conoscevamo a malapena»
Nel suo libro, l’eroe non è suo padre, ma sua madre. Per quale motivo?
«Per me, in quanto figlia, l’eroina è naturalmente mia madre. Lei ha costruito da sola un’esistenza, grazie a un piccolo albergo ha guadagnato dei soldi, ha allevato da sola tre figlie superando tutti gli ostacoli. È stata una Mutter Courage, una Madre Coraggio, ogni giorno, per tanti anni. Ha fatto tanti sacrifici, ha avuto una vita difficile. Paragonato a lei, mio padre è stato bene, perché poteva realizzare i suoi sogni, quel che più desiderava: scalare; e l’ha fatto. E per questo è morto giovane, ma non ha dovuto sopportare la vecchiaia, la più grande sfida degli uomini. Mia madre adesso è sola e ha 83 anni»
Ha dei ricordi concreti di suo padre?
«Mi ha insegnato a suonare la chitarra, mi ha portato sulle sue spalle un paio di volte mentre salivamo ai rifugi alpini. Aveva una voce giovane ed era un bell’uomo. Uso una sua camicia che portava in montagna come camicia da notte e ne ho tanta cura, per averla con me tutta la vita»
Quali emozioni prova, quando pensa a suo padre e a sua madre?
«Quando penso a mio padre l’emozione che provo è empatia. Posso capire la sua fame di vita; sono contenta che lui abbia realizzato i suoi sogni e scalato gli ottomila metri. Sviluppare i propri obiettivi e inseguirli è il massimo di ciò che l’uomo può fare per se stesso, perché ciò lo rende felice. Prima, da ragazzina, provavo a volte rancore verso mio padre, perché aveva lasciato a mia madre un fardello come vita. A volte ero anche triste, perché avrei voluto avere più contatto con lui. Ma oggi penso che lui non avrebbe potuto fare diversamente. Quando aveva dovuto passare la sua vita in un ufficio era come in prigione, rendeva infelice la sua famiglia perché lui stesso era infelice. Per mia madre invece provo spesso compianto, ma anche gratitudine e ammirazione per il coraggio che ha avuto»
Cosa pensa dell’alpinismo?
«L’alpinismo estremo è, come qualsiasi cosa estrema, ricerca, nevrosi, compensazione. Quando un uomo ha bisogno di questa ansia estrema e deve mantenerla, per avere un controllo sulla vita e sulla morte, allora deve fare alpinismo estremo, il pilota di Formula Uno o canottaggio sul Niagara; perché no? Legittimo da capire, mi diverte di più di una pluridecennale psicoterapia. Ciò che è estremo non vuole una vita il più lunga possibile, né comoda»
Entrambi i suoi genitori amavamo l’alpinismo. A lei piace, anche se la montagna le ha portato via suo padre?
«Io sono una normalissima passeggiatrice. Mi piacciono le vette, in particolare i tragitti più facili, non quelli scoscesi o quelli sui quali si sta appesi eretti o legati a una corda. Le pareti a picco sono spaventose, infernali. E non ho neppure voglia di patire quel freddo che tormenta, le colonne di ghiaccio, le slavine. Amo le baite con i loro cibi semplici e la birra fresca. Per me camminare in montagna significa meditare. Deve essere riposante»
Suo padre resta un eroe che ha amato molto la sua famiglia. Ma ha secondo lei qualche colpa?
«No, mio padre non ha nessuna colpa. Ha detto a mia madre sin dall’inizio quali progetti aveva, cosa voleva raggiungere. Non ha mentito, né ha tolto nulla a nessuno. Il fatto che sia morto presto, non è colpa sua. È il destino. Si può morire giovani anche cadendo da un albero di ciliegie o attraversando i binari ferroviari»
Oggi che è una donna, cosa vorrebbe dire ai suoi genitori?
«A mio padre vorrei dire: “Spero tu sia stato spesso felice” e “Ti avrei voluto davvero conoscere meglio”. A mia madre vorrei dire: “Hai fatto tutto bene. Brava!”».

Giovanna B.

Ora sei donna tutto un
perdono
e cosi’ come vi abita
il pensiero divino
fiorira’ in segreto
attorniato dalla tua grazia.
(Alda Merini)

giovedì 23 aprile 2009

Fumerie d'ozio


I due punti più deboli della nostra epoca sono la mancanza di principi e la mancanza di immagine.
Viviamo in un'epoca che legge troppo per essere saggia, e crede troppo per essere bella.
Viviamo in un'epoca in cui il superfluo è la nostra unica necessità (Oscar Wilde)